Dice Barnaba Maj, che di mestiere fa il professore universitario in quel
di Bologna e si occupa di filosofia della storia: << Quante guerre ci sono state, e ci
sono tuttora in atto, nella storia? Se si esamina per così dire lo statuto
epistemologico della “guerra” nella storiografia, salta agli occhi un
paradosso: è trattata quasi sempre in modo evenemenziale e la loro ricostruzione
specialistica affidata alla storiografia tecnica.>> (Cnf.
“Tempo e temporalità storica” in Discipline Filosofiche, Quodlibet ed. XXII I
2012, Presentazione). Sono convinto da tempo che il problema della storia, e di
come si usa elaborarla in un determinato contesto sia un problema per nulla
secondario in politica, e che non sia possibile capire ciò che ci succede se
non abbiamo una idea in qualche modo vicina al vero di ciò che è successo in
passato. Mai come oggi, credo, la più becera mistificazione della storia è uno
strumento di potere politico, e le guerre, a volte vengono perfino chiamate
“missioni di pace”. Certo si potrebbe obiettare che il potere abbia sempre
mistificato la storia per suo tornaconto, ma questa mistificazione non è mai
stata così profonda, al punto da mettere in crisi la disciplina della storia in
quanto tale. Per questo nel settore della filosofia della storia vi è un grande
fermento che a me pare sintomatico della sua crisi per altro percepita come
tale dagli stessi studiosi del settore. La vita dell’umanità si snoda su un
percorso che ha una sua logica, per cui nel passato ci sono le premesse per ciò
che succede nel presente, e che non sia possibile analizzare i fatti che
succedono e che sono successi senza comprenderne le concatenazioni logiche che
li legano tra loro. In linea generale viviamo un tempo in cui il domino delle
idee, o gli interessi che sottostanno alle idee che vanno per la maggiore,
impediscono di cogliere queste concatenazioni. Tornando alla citazione iniziale
di Barnaba Maj, si può osservare che, almeno nella situazione italiana, non
solo le guerre, ma anche le stragi, i delitti eccellenti, sono trattati con i
medesimi criteri di cui parlava il Prof. Maj, come fatti estraibili dal contesto
e quindi appunto evenemenzialmente. Altro problema non c’è se non quello
giudiziario, quasi che l’ordinamento giudiziario, fosse anche perfettamente
funzionante e non lo è, notoriamente, possa risolvere di per sé, problemi
attinenti altre sfere della vita politica e sociale. Nella generalità dei casi
manca la riflessione sul ciò che consegue da determinati fatti, quali appunto
quelli cui mi riferivo. Ora, tanto per dire, ormai c’è una produzione teorica
in diversi campi, ne parlano filosofi, storici, sociologi, psicologi, che
sottolineano come si sia perso, nella cultura postmoderna dominate, la capacità
di capire il passato forse perché, mi verrebbe da dire, abbiamo perso la
capacità di percepire correttamente il ritmo del tempo che passa, che è quello
che consente il sedimentarsi dei fatti storici a causa, se vogliamo, degli
effetti del nostro vivere immersi nella nevrosi indotta mondo dei media, al cui interno si percepisce
malamente il ritmo naturale della vita, l’alternarsi di giorno e notte, e per i più, tra coloro che anno diritto di cittadinanza, perfino la capacità di sperimentare direttamente le quantità
di lavoro fisico per compiere gesti
“naturali”. Dice in un verso di
“Lettera” il grande Guccini “C’ è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ansimo
dopo una corsa” E quindi, tornando al problema della guerra, non
siamo in grado di analizzare correttamente le guerre del passato, e
conseguentemente non siamo in grado di cogliere le conseguenze che si
ripercuotono nel presente. Le due guerre mondiali non si sottraggono a questo
destino. Intanto vengono spesso rappresentata nelle ricostruzioni
giornalistiche destinate spesso a trasmissioni televisive o a DVD o alla carta
stampata nelle occasioni delle ricorrenze che tali eventi dettano, tipo il 6
giugno, anniversario appunti dello sbarco angloamericano in Normandia del 1944,
superbamente celebrato con dovizia di assistenza mediatica, come eventi
disconnessi tra loro. E tuttavia anche al di fuori di questi contesti, come
problema nel problema, c’è una propaganda persistente, ora più vistosa ora più
discreta, in cui il motivo dello sbarco angloamericano in Normandia viene
segalato come l’episodio che segnò la svolta nel conflitto mondiale e che
determinò l’assetto democratico dell’Europa occidentale. A scanso di equivoci
non credo sia sostenibile una tesi per cui tali eventi siano indifferenti sul
corso degli eventi che seguirono, al contrario; solo che la loro importanza va
collocata diversamente da quanto di voglia far credere. Comunque, tornando al tema, in modo ancora più
sottile e pervicace, l’attività di propaganda ottiene il risultato di far
credere che le guerre sono considerati eventi meramente catastrofici, eccezionali, epocali, ora dovuti alla
follia di Hitler, nel caso della seconda, ora a passaggi d’epoca come nella
prima, scambiando così la causa per l’effetto, ma sempre legate a cause
eccezionali e straordinari, e per ciò stesso irripetibili, o non riproponibili
nel mutato contesto odierno. Va da sé che siano davvero irripetibili nelle
medesime forme, ma non nella sostanza. Le due guerre mondiali, per esempio, vengono
generalmente percepite come inserite in epoche storiche profondamente diverse
tra loro. Eppure tra i due eventi intercorrono 31 anni calcolati dall’inizio
della prima alla fine della seconda, che costituiscono un lasso di tempo perfettamente
racchiudibile nella esistenza di un individuo in età di ragione. Una persona,
poniamo, che avesse vent’anni nel 1914, posto che sia sopravvissuta alla guerra
stessa, ne ha cinquantuno nel 1945. Difficile, in un contesto più obiettivo,
sottrarsi alla sensazione che vi sia un nesso tra i due eventi, quasi che gli
“accordi di pace” siano sempre in grado di chiudere definitivamente ogni tipo
di contenzioso e di problema insito nel conflitto stesso, e segnano per
l’appunto, “cambiamenti epocali”. Per
carità, ora non voglio sostenere che il nesso tra le due guerre non sia stato
preso in considerazione da nessuno, al contrario, solo che l’argomento è rimasto
in un ambito elitario, che non rientra molto nelle numerose vulgate, si sarebbe detto un tempo,
sulle cause della seconda guerra mondiale cui accennavo prima, in pratica non
ha nessuna incidenza sulla politica di oggi, che è quello che per me conta. Invece
i cardini della divulgazione della storia è incentrata sulla presenza
“provvidenziale” degli Usa che hanno liberato l’Europa dal nazismo,
disinteressatamente e per amore della libertà e della democrazia e, al contempo,
demonizzare l’Unione Sovietica e di Stalin, spesso rappresentato come una sorta
di equivalente ideologico del nazismo. Ora,
a ben riflettere c’è stato un prima e un dopo che accomuna le due guerre, ed è
proprio il ruolo degli Usa nell’Europa e nel mondo. Le due guerre hanno rappresentato
un volano potentissimo per l’economia Usa che si è avvalsa in primo luogo della
non trascurabile circostanza di avere il proprio territorio al riparo dalle
distruzioni proprie dei teatri di guerra come lo furono l’Europa e l’Asia, e
poi in secondo luogo per i crediti, ovviamente vantaggiosi che gli Usa elargirono
a piene mani. Di pari passo le due guerre hanno determinato un forte
ridimensionamento delle economie europee e del relativo peso politico
internazionale, si pensi al ruolo che aveva la Gran Bretagna prima delle due
guerre e a quello decisamente residuale che ha avuto dopo le due guerre. Ora la
Gran Bretagna è una sorta di costola volontaria degli Usa. Approfondire e
rendere teoricamente dignitoso questo tipo di riflessione, credo, gioverebbe a
rendere meno evenemenziale il discorso storico sulla guerre, giuste le teorie
di Maj. Certo vi è un fenomeno politico ed economico parallelo, che riguarda il
fenomeno dell’Urss e della Cina, che hanno registrato grandi progressi
economici anche durante le guerre, pur avendo i propri territori coincidenti, almeno in gran parte, col teatro delle operazioni
belliche, e al di fuori di qualsiasi gioco economico tendente ad aspirare
risorse da altri territori, come appunto fecero e fanno i paesi
dell’Europa occidentale. Quel che conta è rappresentare ciò che accadde, a
proposito della seconda guerra mondiale, anche a rischio di contraddire i fatti
che pure correttamente si rilevano, non sempre a dire il vero, come la dimostrazione
di quintessenza di potenza e al tempo stesso di democrazia degli Usa relegando
tra parentesi, come fosse cosa di poco conto le incertezze iniziali nei confronti di Hitler condensato nel cd spirito di Monaco da parte delle democrazie
occidentali. Ormai è richiesto una particolare dose, al momento della loro
interpretazione, di onestà intellettuale, per concludere che alle suddette democrazie occidentali stava bene il
regime hitleriano, a patto che si limitasse ad espandersi verso oriente, ossia
verso l’Unione Sovietica. Ricordo, principalmente a me stesso, che la
conferenza di Monaco si tenne il 29-30 settembre 1938 tra Gran Bretagna,
Francia, Italia e Germania e stabilì l’annessione dei Sudeti, territori della
Cecoslovacchia, alla Germania, mettendo di fronte al fatto compiuto tanto l’Unione
Sovietica, ovviamente contraria, quanto e soprattutto la medesima
Cecoslovacchia, paese che pure gravitava nell’orbita di influenza occidentale. Con
ciò stesso svanirono le possibilità di una alleanza militare di Francia, Gran
Bretagna e Unione Sovietica contro la Germania, con il tenue alibi della
opposizione di Polonia e Ungheria al passaggio delle truppe sovietiche,
condizione necessaria per stroncare sul nascere ogni velleità aggressiva da
parte hitleriana, così come chiesto ripetutamente dai sovietici medesimi. Ma,
con tutta evidenza, non era questa la prospettiva più auspicabile per gli
interessi occidentali, per i quali invece l’aggressione tedesca alla Unione Sovietica
era l’opzione migliore, come confermano i fatti che seguirono tant’è che lo
sbarco degli alleati in Normandia nel ‘44 avvenne quando l’aggressione nazista
all’Unione Sovietica si era già concretizzata in una catastrofe per la quantità
e qualità delle forze militari impegnate e relativi costi, non solo economici.
In pratica l’invasione dell’Unione Sovietica esaurì irreversibilmente il
potenziale bellico hitleriano. Sicuramene la storia non si fa con i se e con
i ma, e tuttavia è lecito supporre che in caso di vittoria tedesca a
Stalingrado, lo sbarco in Normandia si sarebbe svolto, posto che se ne
ravvisasse ancora la necessità, in ben altre condizioni. L’importante per gli
Usa è che ci fosse una guerra in Europa, la terra di un potenziale concorrente
economico in grado si soverchiarli, in applicazione del classico detto: divide et impera. Gli sbarchi alleati in Italia e in Francia,
quindi, a ben vedere, furono effettuati per prevenire l’occupazione sovietica
dell’Europa, e non fu una manifestazione della ispirazione democratica e
antinazista delle potenze occidentali. La lotta la nazismo, se vogliamo dirla tutta,
non era cosa che interessasse davvero gli alleati, al contrario è lecito
supporre che una vittoria tedesca avrebbe sicuramente portato ad una situazione
europea perfino più accettabile per gli Usa, non una “prima scelta” ma un
ripiego plausibile. Il suo limite non era dato dai campi di concentramento o
dai livelli di oppressione interna ma dalle sue pretese di supremazia
internazionale. Le cd “democrazie liberali” erano più compatibili col nazismo
di quanto non si dica. Le riprove abbondano, dato che i gerarchi nazisti
trovarono rifugio in paesi del Sudamerica, all’epoca sotto stretta egemonia
Usa, e in Italia non furono praticamente mai perseguiti, e, grazie anche al
comunista Togliatti, non ci fu nessun tipo di epurazione nelle forze armate e
negli apparati dello stato, di modo che lo Stato italiano, solo retoricamente
può dirsi come “nato dalla resistenza”, non a caso questa espressione la si usa
esclusivamente per la Carta Costituzionale; al contrario nelle fabbriche, Fiat
in testa, l’epurazione dei comunisti e dei partigiani ci fu. Inoltre la vicenda
di Kappler è una conferma di questo assunto e non lo contraddice per nulla.
Pertini, per fare un altro esempio, negli anni della sua presidenza rivendicò
la sua partecipazione alla decisione politica di condannare a morte Mussolini,
non per ansia di vendetta, ma perché era noto che gli inglesi avrebbero voluto
“riciclarlo” nella vita politica italiana. Quindi, tornando alla politica in
Italia la doppiezza è quasi d’obbligo; bisogna essere democratici di facciata,
salvo poi, in concreto a ispirarsi a principi di segno opposto. Per esempio, in
Italia siamo stati governati, democraticamente,
si fa per dire, da un partito che si chiama “Lega Nord” sedicente
secessionista, nonostante la Costituzione, ha attuato in collaborazione con
Berlusconi, politiche razziste, con profondi legami con la criminalità
organizzata, con politiche economiche assolutamente recessive, asservite
all’Euro, ossia alla Germania riunificata. Una forza che, sul piano
istituzionali, ha cercato e cerca di uniformare in tutto e per tutto l’Italia
agli Usa, senza che nessuno percepisse la ridicolaggine del “federalismo”
all’italiana e il suo essere appunto una giustapposizione senza radici nelle
storia e nelle esigenze reali del paese, avendo ricevuto, su questo anche il
pieno appoggio del Pd, tant’è che si sta dibattendo di una riforma del Senato
di cui quasi nulla si capisce tranne che si vuol reintrodurre l’autorizzazione
a procedere per i senatori che non avrebbero, nell’ipotesi in
discussione, neppure la dignità di essere “eletti del popolo”. Un
Paese che si vuole indipendente ma tale non è e non lo è in misura assai
maggiore di quel che comporta una normale collocazione in una “sfera
d’influenza” perché non abbiamo il controllo totale ed esclusivo delle forze
armate, non abbiamo il potere di battere moneta. Certo il discorso è lungo e
qui viene solo abbozzato ma credo sia assai pertinente. Altra questione assai
importante che discende sempre dalla situazione politica creatasi al termine
della guerra, è che in Italia vi è una integrazione del mondo criminale in
alcune leve di comando dello stato a cui ci siamo assuefatti al punto che nessuno, in tema di collusione tra ceto
politico e criminalità organizzata, considera che le persone non si possono
scindersi in più parti, e che se un delinquente ricopre ruoli politici può
farlo esclusivamente nell’interesse suo privato delinquenziale. Su questi
aspetti in Italia vi è una tolleranza che va oltre ogni logica, infratti
riscuoto successi elettorali formazioni politiche il cui rapporto con la
criminalità è conclamato, e questo perfino al netto del condizionamento dei
media che pure è fortissimo e costantemente sottovalutato “a sinistra”. Ma
tornando alle questioni internazionali va rilevato che politiche di dominio Usa
nel Sudamerica fino a tutti gli anni ’80 furono improntate a criteri
apertamente replicanti il sistema hitleriano. Nell’ Europa del dopoguerra, gli
Usa furono i principali ispiratori dei colpi di stato del 1967 in Grecia, per
non parlare della situazione italiana del dopoguerra, dalle strategie stragiste
all’ affair Moro di cui mi sono già
occupato in questo blog parlando di Berlinguer, il segretario comunista filoatlantico. Comunque a
proposito della Grecia, nessuno ricorda che dal 1946 al 1949, in pieno dopoguerra la democratica Gran Bretagna intervenne militarmente con mano pesante
per affossare la legittima repubblica greca nata con la resistenza, quella sì,
davvero autonoma da tutti egemonizzata dai comunisti, senza che nessuno
intervenisse in suo favore, neppure quel cattivone
di Stalin che evidentemente prendeva sul serio gli accordi internazionali, e
precisamente quelli di Yalta, per la circostanza. Detto banalmente la questione
è ancora oggi, più ancora che nel recente passato, oggetto di propaganda
ideologica tambureggiante, nei media, nei discorsi ufficiali ma anche in quelli
ufficiosi. Tornando alle questioni teoriche che con queste sono strettamente
intrecciate, credo sia utile citare Frank Ankersmit, membro della reale
accademia olandese, il quale, riflettendo sui destini della storia come
disciplina dotata di un proprio statuo che la rende scienza tra le altre
scienze umane cita l’esempio del ricorso al “giorno della memoria” come esempio
di un processo di “privatizzazione” della storia medesima, la cui ricerca nel
recente passato, era assimilabile ad una costruzione imponente a cui ogni
ricercatore apporta un contributo paragonabile
alle pietre che, una sull’altra, fanno una grande opera architettonica, dotata
comunque di unicità. Ora invece la ricerca storica sembra essersi trasformata
in una caccia al tesoro, dove tutti si impegnano, poco importa la specifica
competenza, per trovare il “tesoro” appunto ciò che si vuol ricercare, e che,
puntualmente viene trovato, anche se, in questo modo ogni ricerca è un fatto in
sé, non sempre o quasi mai ricollegabile ad alle ricerche altrui, ad un
impianto che consenta a tutti, o ai più, di ritrovarsi nel medesimo processo
che chiamiamo appunto storia. Jörn Rüsen, è un altro studioso il quale rileva
nella prassi del “giorno della memoria” analogo inganno perché, a suo dire,
tale prassi serve a dare un senso con criteri soggettivi che rendono
impossibile una condivisione generalizzata della interpretazione degli eventi
oggetto di tale discutibile prassi, sino ad affermare: “Il ricordo e la memoria in quanto pratiche
culturali, elementari ed universali, orientano in modo vivo l’esistenza e si
presenta come un fuoco che riscalda il senso storico. Questo calore, rispetto
alla fredda razionalità della ricerca storica oggettiva, appare un paradiso
perduto. (….) in fondo gli scienziati sanno meglio di chiunque altro che il calore
del ricordo storico si raffredda durante la verifica dei suoi contenuti e della
sua attitudine al vero, di cui la scienza si fa interprete.” Per
essere più chiaro rileverò che c’è stato un tempo in cui anche tra
intellettuali politicamente schierati, c’era un dissenso esplicito sulle
interpretazioni dei fatti storici, non sui fatti medesimi. Intellettuali del
tipo di Croce e perfino Gentile, non hanno mai pensato di falsificare eventi
storici per fini politici, solo di dare loro una interpretazione, che
certamente potrebbe risultare non accettabile, mentre ore abbondano
ricostruzioni “storiche” che sono delle falsità accertabili. Nel passato, tale
accusa, ossia di falsificare la storia è stata rivolta raramente, e il più
importante tra coloro cui è stata rivolta è stato Osvald Spengler, su cui
tornerò più avanti. (continua)
:-)
RispondiEliminaDifficile non condividere in parte le considerazioni dell'amico Pippo, a patto da includere lui stesso nelle fonti da prendere "cum grano salis".
;-)
Fonte Wikipedia:
« Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio. »
(Matteo 13,24-30)
:-)
La gran parte è buon grano e non vogliamo certo:
"buttare il bambino con l'acqua sporca".
:-)