Riprendo ora il filo del discorso, iniziato con la serie dei post su la
storia, la guerra e Renzi. Tuttavia continuano le apparenti divagazioni nella
mia esposizione tant’è che parlerò anche di filosofia mentre il tema di fondo
di queste riflessioni vorrebbe essere la storia, ma alla fine tutto si tiene.
Infatti con il rogo di Bebelplatz del 10 maggio ’33 già ricordato, Hitler ha
impresso, non solo idealmente, una svolta che ha avuto profonde ripercussioni
teoriche. Ha inferto una ferita profonda nello sviluppo del pensiero
occidentale mai risarcito i cui effetti si sono rivelati in tutta la loro
gravità, “a babbo morto” volgarmente parlando, e precisamente dopo lo
spartiacque del 1989. La citazione che tutt’ora si può leggere sul posto del
rogo, «Quando
i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone» non
è solo pertinente ma di più.
Bruciando i libri in quel contesto e con quelle modalità, si inibisce nel
profondo la possibilità elaborare teorie in qualche modo collegabili a quelle
esplicitate nelle opere bruciate. Il problema riguarda materialmente l’umanità
intera e non solo quella porzione storicamente coinvolta in quella immane
tragedia. Solo il nostro retropensiero idealistico, ci induce a credere che
l’elaborazione di un percorso teorico avvenga solo in positivo, in realtà può
avvenire ed è avvenuto secondo me, anche in negativo. Quel che è accaduto poi
nel dopoguerra non è stato sufficiente, mi par di capire, a rimarginare quella
ferita. E’ come se si fosse creata una “bolla d’aria” conseguente alla
rimozione di un trauma, che, come ci insegna la psicanalisi, continua ad
operare “sotto traccia”. La vita intellettuale dell’Occidente per effetto delle
vicende della Resistenza nei vari Paesi, combinate con le ripercussioni nel
mondo della rivoluzione cinese e delle vicende dell’Indocina, alla potenza
militare della Unione Sovietica, sembrava essersi rivitalizzata ma con tutta
evidenza si è trattato di un fenomeno passeggero e superficiale. Con gli
avvenimenti dell’89, si è chiusa una parentesi, apertasi nel ’42-43 con la
battaglia di Stalingrado, che qui assumo come momento simbolico del trapasso
dalla vittoria alla sconfitta delle truppe naziste. Come conseguenza del
celebratissimo crollo del muro di Berlino i è riprodotto nello sviluppo del pensiero
occidentale, il trauma del rogo in Bebelplatz del ‘33, che si traduce
concretamente nella sua incapacità, presente sin dalla sua nascita, di
criticare l’esistente e di prefigurare un mondo diverso. Attenzione, a mio
parere il crollo del muro di Berlino è un fatto positivo in sé, la questione è
che un immenso apparato propagandistico lo ha reso qualcosa di diverso da
quello che fu in realtà. Basta vedersi un po’ di storia e leggersi un po’ di
Marx e si comprende bene che né Marx, e neppure Stalin ebbero nulla a che fare
con la sua erezione. Si è giunti perfino a teorizzare precisamente la fine
della storia, come se fosse nelle umane possibilità scindere il nesso tra essa
e gli accadimenti che si susseguono nel tempo. E’ come se, volendo
personalizzare metaforicamente la situazione, il pensatore occidentale avesse
perso la bussola, gira intorno a sé stesso, si muove a vuoto con gli occhi
rivolti ad un passato, solo che in questo passato vede solo nebbia e fumo.
Perfino l’innegabile progresso tecnologico, a differenza di quel che accadeva
nel passato, pur avendo mutato costumi e modi di vivere, non ha dato a tutti
gli stessi benefici, al contrario ha accentuato le divaricazioni sociali.
Intanto ha rimosso da sé il marxismo, unica cultura formulata nell’Occidente
che è stata in grado di travalicare i suoi confini, e non certo per il ricorso
ad una imposizione violenta. Dopo di che sembra che i rapporti internazionali
siano tornati, sotto molti profili, alle guerre di religione, quasi ad un
orribile ritorno al medioevo. Nonostante il ’68, il marxismo italiano e credo
di tutto l’Occidente, rimane legato in modo da potersi considerare
sostanzialmente esclusivo, alla figura e all’opera di Antonio Gramsci, rimasto
senza emuli. Queste riflessioni possono sembrare arbitrarie, nostalgiche,
ideologiche e quant’altro, ma vi sono giunto un po’ per caso, riflettendo sui
fatti di vita vissuta. Per spiegarmi meglio devo aprire una parentesi
autobiografica cosa di cui mi scuso. Per laurearmi ho frequentato l’università
di Bari a due riprese, sostanzialmente. La prima dagli anni ’72 al ’77 senza
conseguire la laurea. Devo precisare che lavoravo saltuariamente, ero molto
attivo in politica e in attività culturali, e per di più non mi andava di
sostenere esami senza essermi ben preparato. Partii per il servizio militare
obbligato e al ritorno trovai il lavoro a tempo indeterminato, e per un po’ non
mi occupai più dell’università, se non per qualche esame saltuario necessario
per non decadere dagli studi. Poi per circostanze varie decisi di laurearmi e
ripresi la frequenza dell’università fino alla laurea e per di più conseguii l’attestato
di corso di perfezionamento postlaurea in Etica Sociale. Tutto ciò per dire che
ho vissuto due fasi della vita di ateneo, ben distaccate tra loro. Nella prima,
in filosofia si studiava Marx in tutte le salse, e si ignorava Heidegger, (Martin
Heidegger, noto filosofo tedesco, n. il 26 settembre 1889 e m. 26 maggio 1976) nella
seconda si studiava invece si studiava Heidegger in tutte le salse e Marx era completamente
scomparso. Fui costretto a quel punto, per laurearmi decorosamente, a studiare “Essere e Tempo” la sua opera più famosa, e di conseguenza, visto
la centralità di questo autore nel dibattito filosofico, ad approfondirlo per
il possibile, atteso che non sono un accademico di professione. Questo
personaggio che ha scritto tantissimo, senza dire nulla, almeno per me, è
difficilmente interpretabile ad una prima lettura per il suo tipico linguaggio
autoreferenziale oltre l’immaginario. Il dato di fondo è che si rifà a lui la
più gran parte dell’intellettualità di sinistra europea. Che sia chiaro, la fama e la centralità del
pensiero di Heidegger dagli anni novanta ad oggi in tutto il pensiero
filosofico occidentale è innegabile. Su di lui si è scritto tantissimo e non
sono mancati certamente i critici. Per quel che mi riguarda mi accodo a coloro
che lo trovavano astruso e incomprensibile, circostanza per me frustrante,
perché ho avuto la presunzione di essere per lo più un autodidatta. Devo a due docenti dell’Università di Bari,
davvero di grande spessore quali Ferruccio De Natale, e Francesco Fistetti la
possibilità essermi potuto fare un’idea del pensiero di Heidegger. Ora volendo parlare
di filosofia accademica il discorso sarebbe interessante e tale da non potersi
liquidare come sto facendo ora, solo che è troppo lungo. A me preme ora il risvolto
politico della sua figura. Nell’ aprile del 1933 costui venne nominato rettore
dell’Università di Friburgo, mentre la più grande e numerosa intellettualità
tedesca del tempo fu costretta, prima, a cedere i posti nell’università perché
ebrei, e per lo più di sinistra, poi fuggire per salvarsi dallo sterminio. Il
problema è che di lì a un mese circa ci fu il rogo dei libri nella Bebelplatz,
che, è bene ricordare, non fu limitato alle opere di autore ebreo, ma un
insulto e una minaccia gravissima a tutta l’intellettualità tedesca, che era,
al momento, la parte più significativa dell’intellettualità occidentale. Ebbene
in questo contesto Heidegger accetta il rettorato all’università di Friburgo,
mentre il suo pensiero va nel dimenticatoio nei successivi cinquanta anni, per
ritornare fulgido negli anni novanta. Ebbene si è scritto tantissimo per
discutere il rapporto tra il suo pensiero e il nazismo. I più sostenevano che
in realtà la sua opera andava al di là, e che non poteva essere qualificato
come nazista. Francamente studiandolo, conclusi che il rapporto con il pensiero
nazista fosse più che evidente, posto che non mi pare possibile qualificare
come nazista solo ed esclusivamente ciò che è timbrato con la croce uncinata.
Del resto sono sempre stato convinto che le condizioni materiali in cui si
elabora una teoria sono fondamentali per la valutazione critica della medesima
teoria. Certamente Gramsci avrebbe bollato le teorie di Heidegger come
elucubrazioni autosufficienti, solo che non credo abbia potuto leggerlo,
infatti Gramsci fu incarcerato nel ’26 e Essere e Tempo fu pubblicato nel ’27.
Ritenevo, in merito al problema del suo rapporto con il nazismo, che esso fosse
evidente e imprescindibile, non solo per le condizioni che resero possibile la
sua nomina al rettorato, argomento per me perfino conclusivo di tutta la
vicenda, mal anche per il suo linguaggio, criptico per certi aspetti e tale da
essere pienamente accessibile solo per iniziati. Il suo linguaggio è l’esito di
una scelta ideologica non necessaria alla esposizione dei medesimi concetti,
per quanto poi mirabilmente coerente con i medesimi. Non capivo quindi il
perché della sua accoglienza da parte della più grande intellettualità
occidentale, anche e soprattutto quella di sinistra. Tuttavia di certo non
potevo accantonare l’ipotesi che di tutta la vicenda non avessi compreso un bel
niente. Invece leggo sul numero 4/2014 di MicroMega, alla pag. 77 un intervento
del prof. Maurizio Ferraris, filosofo docente all’università di Torino. Tale
intervento è stato significativamente collocato nella rubrica “cuori di
tenebra” e reca un’epigrafe che riporto integralmente. “È ormai noto che il rapporto di Heidegger
con il nazismo fu tutt'altro che una fesseria, come lui stesso tentò di
minimizzare nel dopoguerra. La recente pubblicazione dei quaderni neri-che
mescolano nazismo antisemitismo e culto mistico del segreto-non fa che
confermare quanto l'ideologia nazista fosse intrinseca al pensiero dell'autore
di Essere e tempo. Tanto che fu lui
stesso a disporne la pubblicazione dopo l'opera omnia. Forse convinto che nel
momento in cui fossero usciti il vento della storia sarebbe già tornato a
soffiare nel verso giusto per lui.”. Dunque l’enigma è risolto ma in
astratto, perché credo che la grande intellettualità di cui parlavo ignorerà
sostanzialmente questa pubblicazione postuma di Heidegger che fornisce la prova
provata di quel che doveva essere chiaro ai più anche a prescindere da questa
circostanza. Trovo questa vicenda assolutamente paradigmatica della crisi del
pensiero occidentale, che nel postmoderno ha rinunciato scientemente ed
obiettivamente ai criteri di interpretazione e di analisi critica dei fatti e
delle teorie proprie della modernità di origine illuministica. Insomma dal ’90
ad oggi la grande intellettualità occidentale, soprattutto quella di sinistra,
non ha riconosciuto il pensiero di Heidegger come qualcosa di altro da sé,
consegnandosi ad ogni sorta di oscurantismo che ha conseguenze drammatiche
nella vita quotidiana di noi tutti. Quando voglio cogliere nel percorso della
storia contemporanea qualcosa che ha introiettato il pensiero nazista nei suoi
presupposti di fondo, non certo nelle sue manifestazioni esteriori, trovo nella
vicenda di Martin Heidegger una conferma importante.
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