“La questione morale” è
nata, in quanto specifica riflessione politica così denominata, da una famosa
intervista, ancora oggi citata, rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio
Scalfari il 28 luglio 1981 sul quotidiano “La Repubblica”. Berlinguer all’epoca
era segretario (terzultimo, se ben ricordo, dopo di lui Alessandro Natta e Achille
Occhetto) dell’ormai disciolto Partito Comunista Italiano, a sua volta erede
del Partito Comunista d’Italia,] fondato a Livorno nel 1921 da un gruppo di
personalità dissidenti dell’allora Partito Socialista, comprendente tra gli
altri Amedeo Bordiga (segretario della neonata formazione) e Antonio Gramsci.
Certo costoro sono personaggi che, fosse possibile, si starebbero rivoltando nella tomba come si usa dire in questi casi.
Ora, la questione morale, l’ha ripresa pure Renzi in un’altra intervista
rilasciata su Rai3 al conduttore di “Che tempo che fa” l’8 maggio ’16, Fabio
Fazio. Diciamolo francamente, tra i due interventi, Quello di Berlinguer e
quello di Renzi non ci sono confronti possibili. Tanto era colto, sottile,
articolato, seppur profondamente manipolatorio quello di Berlinguer, quanto
tronfio, intriso di bugie elementari prive perfino di qualsiasi doppiezza
politica, sintomo solo di plateale ignoranza e arroganza quello di Renzi. Bontà
sua costui ammette l’esistenza di una tale angosciante questione anche nel suo
Pd, che, in fondo in fondo, sarebbe l’erede di quel Pci di cui era segretario
proprio lo stesso Berlinguer, quasi a dimostrare, ove ve ne fosse bisogno, che
con quella intervista non vi fu nessun progresso nella lotta alla corruzione,
al contrario la situazione è precipitata proprio in quel partito, non a caso
direi. Infatti quella intervista di Berlinguer, a mio parere, fu una operazione
sottile, ma generalmente percepita come l’esatto contrario di quella che fu
realmente. Ormai da tempo viviamo in un mondo di pazzi, come dice una mia buona
amica, altrimenti non si spiega il valore attribuito a questa intervista.
Davvero credo che ci volesse una mente sottile come quella di Berlinguer per
stabilire che il fenomeno della corruzione pone un problema “morale”, perché a
lume di naso, soprattutto se parliamo di personaggi pubblici, sindaci,
amministratori, eletti a qualsiasi titolo, il problema va oltre, molto oltre,
soprattutto se la questione della corruzione e dei rapporti tra politica e
grande criminalità è in Italia, endemica, e oserei dire, a costo di litigare
con madre lingua, storicamente endemica.
Nel caso in discussione non si può parlare di una questione semplicemente
morale, ora come allora, ossia di costume, (se ben ricordo l’etimologia latina
del termine riporta proprio al concetto di costume),
ma va ben oltre. Berlinguer doveva saperlo bene, ma il suo problema era proprio
questo, derubricare in capo alla DC l’accusa di essere il perno, l’asse
portante, la costante garanzia di impunibilità della corruzione per effetto
perfino evidente alle cronache del tempo, di una collusione con la grande
criminalità in Italia, così come era nella vox
populi della sinistra di allora, sostanzialmente coincidente con la base, e l’elettorato del Pci. In
sostanza, con quella intervista, Berlinguer abilmente, con un linguaggio
forbito e appropriato dice una cosa per intenderne un’altra. In quella
intervista egli mette in capo alla Dc certamente delle responsabilità, ne fa
una questione quasi meramente quantitativa. Nella Dc sembrava volesse dire
Berlinguer, vi erano più casi di corruzione di quanti se ne potessero contare
nel Pci, relegabili a una questione di passione politica declinante, (Il Pci
all’epoca era effettivamente più pulito) ma era una responsabilità morale, quasi casuale appunto, non
politica, non economica, non intrinseca al sistema di dominio delle classi
dirigenti in Italia, non frutto di lucide scelte politiche. Con quella
intervista Berlinguer intendeva avviare una sorta di omologazione del PCI con i
partiti di governo, in grado di rapportarsi “civilmente” con la medesima DC,
che, si badi bene, non andava scalzata, ma legittimata anche agli occhi del suo
elettorato. Il Pci insomma, anche agli occhi dei suoi militanti, doveva
diventare un partito tra gli altri, non il Partito
per eccellenza, così come era concepito sino ad allora, ossi il partito della classe operaia destinato, sebbene a
nessuno ormai fosse chiaro come, a instaurare il socialismo in Italia. Tant’è
che fu in quel periodo che cambiò una tradizione che voleva che gli eletti del PCI
nelle varie istituzioni, fossero bloccati,
ossia messi in cima alla lista dei candidati, con la consegna, nelle sezioni di
esprimere solo per loro il voto di preferenza. Va da sé che i singoli
candidati, in queste condizioni rispondevano del loro operato nelle istituzioni
solo al partito che tra l’altro si
faceva carico dei costi di tutta la campagna elettorale. Proprio durante la
segreteria Berlinguer questa tradizione fu superata e i singoli candidati
potevano farsi una campagna elettorale autonoma, anche a proprie spese, anche
in concorrenza con i colleghi di partito, col risultato che, ovviamente gli
eletti cambiavano natura. Per questa via entravano in una vera e propria carriera,
alla stregua di quella percorribile in un apparato amministrativo qualsiasi, in
cui si era indifferenti alla autentiche questioni politiche. Indovinato a tal
proposito il termine casta dal
fortunato libro di Sergio Stella e Gian Antonio Rizzo. Il loro operato, quello
degli eletti nelle istituzioni, era rivolto e lo è ancora oggi e in misura
assai maggiore di allora, essenzialmente e prioritariamente a tutelare i propri
personali interessi, che erano essenzialmente clientelari, ma sicuramente poco
attenti a battaglie moralizzatrici, perché ormai prendeva corpo il fenomeno del
ceto politico come corpo sociale a sé stante, politicamente trasversale,
separato dal resto della società e con regole omertose al proprio interno.
Insomma l’onestà in politica smise di essere un valore anche nel Pci. Il
significato ultimo di quella famosa intervista di Berlinguer consiste nel far
cessare la corruzione medesima come un punto dirimente nei rapporti Dc-Pci. Con
essa il Pci abdicava alla lotta alla corruzione come fatto intrinsecamente
politico, per ridurla appunto ad una questione morale, sostanzialmente interna ai singoli partiti. Infatti di lì
in poi è successo che quel mondo di sinistra si sia andato progressivamente
sfaldando sino alla completa omologazione con le classi dirigenti anche sul
piano della corruttela. Non a caso Renzi, che di quella tradizione dovrebbe
essere l’erede, anche se fa di tutto per liberarsene, ammette che nel suo Pd vi
è una questione “morale”. La portata
della parola nelle due interviste però è la medesima. Si dice morale per non dire che si tratta di
scelte politiche precise. Innanzitutto il problema della moralità, per ciò che
riguarda Renzi, se proprio si vuole accettare la definizione, attiene a scelte
di governo tanto quanto a quelle di partito, e riguardano precisamente le sue
scelte. Infatti mi chiedo quale
significato morale abbia la questione
del sostegno a spada tratta ad un personaggio come Vincenzo De Luca in capo
alla regione Campania. Il problema, a dispetto di ciò che dicono alcuni
commentatori dall’aria di “sinistra” non è solo di quantità di voti, altrimenti
non si comprende la vicenda delle primarie napoletane del Pd, truccate a danno
di Bassolino e a favore della Valente. Non si può pensare che costei prenda più
voti di Bassolino, solo che è più fedele a Renzi. Questa vicenda, il cui
protagonista principale è sicuramente Renzi, non può, almeno credo, essere sia
un esempio di moralità. Mi chiedo ancora che significato abbia nominare il Gen.
Toschi a comandante della Guardia di Finanza. Per gli amici che non abbiano
avuto modo di seguire la vicenda riporto per intero l’art. de “Il Fatto
Quotidiano” di Mercoledì, 4 maggio 2006 di Marco Travaglio:
“Gentile presidente
Mattarella, scrivo a Lei perché -pur dissentendo su alcune sue parole molti
suoi silenzi-apprezzo i suoi appelli sulla corruzione. È soprattutto perché
tocca a lei firmare o respingere il D.p.r. con la nomina fra gli altri del
generale Giorgio Toschi a comandante della Guardia di Finanza, dopo aver
espresso più di una riserva al premier Renzi, che naturalmente se n’è
infischiato. Perciò le segnalo l’articolo di Ferruccio Sansa sul Fatto di ieri.
Racconta di un’indagine per concussione della procura di Pisa a carico di
Toschi-allora capo delle Fiamme Gialle pisane-chiusa nel 2002 con
un’archiviazione imbarazzante (sia per i magistrati, sia per l’ex indagato). Di
quell’inchiesta si parlava da tempo, ma nessuno è ancora riuscito a mettere le
mani sulle carte. Fermo restando che nulla di penalmente rilevante può essere
contestato all’alto ufficiale, i fatti accertati dal PM che ha deciso di non
processarlo (mentre ha ottenuto il giudizio e la condanna di vari sottoposti
per mazzette in cambio di verifiche fiscali addomesticate o inesistenti)
pongono problemi etici, deontologici e di opportunità. L’allora procuratore
Enzo Iannelli scrive di aver raccolto “sospetti e indizi” che non paiono
sufficienti per esercitare l’azione penale contro Toschi. Un suo maresciallo
raccontò a un commilitone che il comandante concludeva imprenditori conciari
del cuoio o se ne faceva corrompere con “somme di denaro”, dopo aver dato
“disposizione” ai sottoposti di dispensarli dagli accertamenti. I due
sottufficiali conservano le lenti delle ditte produttrici o concussione che
andavano esentate dalle verifiche. Un altro maresciallo si sentì dire da un
imprenditore, al cambio della guardia del comandante: “speriamo che questo
nuovo sia meglio del primo non detta le azioni illecite dal precedente”, cioè
di Toschi. E, citando le testimonianze di quattro colleghi, raccontò che Toschi
“tutti i lunedì di ogni settimana presso la Brigata amministrativa cambiava
banconote vecchie con banconote nuove”. Il sabato invece-secondo un’altra
fonte-un maresciallo li portava i soldi versati dagli imprenditori “tenuti
fuori dalle verifiche”. Lei sa, Presidente, se il generale ha mai querelato per
calunnia i suoi accusatori? Toschi-aggiunge il pm-acquistò pure tre Mercedes in
quattro anni a prezzo “particolarmente favorevole”, con un “mancato guadagno
per la concessionaria è un correlato di risparmio” per sé di 21 milioni e rotti
di lire in tutto. Ed era solito effettuare “versamenti in contanti” in banca
(“sette da 5 milioni” solo tra marzo e settembre 1995), mentre prelevava
pochissimo denaro per mantenere la famiglia (10 milioni di lire nel 1991, 4,3
nel 1992, 4,5 nel 1993, 7,4 nel 1994 e 6,2 nel 1995). Nel suo quinquennio a
Pisa, i pm hanno accertato che “gli imprenditori della zona del cuoio non hanno
avuto, tranne rare eccezioni, verifiche fiscali a carattere generale”. Dulcis
in fundo, Toschi “aderiva all’invito a cene organizzate da imprenditori della
zona del cuoio, notoriamente produttori di fatturato in nero”, ovviamente
risparmiati da accertamenti. Negli stessi anni, anche per molto meno, il pool
Mani Pulite fece arrestare e condannare un centinaio di finanzieri, dal
comandante Cerciello all’ultimo maresciallo. A Pisa invece tutto archiviato
perché, scrive il pm molto spiritoso, gli “indizi e sospetti” di concussione
sono “passibili, in astratto, di spiegazioni alternative” alle banali mazzette.
E quali, di grazia? “Il possedere moneta cartacea nuova di zecca potrebbe
corrispondere a un “vezzo” o a un bisogno soggettivo dell’interessato
scambiatore”. Non è meraviglioso? Un generale della GdF col “vezzo” dei
contanti e delle banconote fresche di stampa: un collezionista che ne annusa il
profumo. E le cene? Un “imprudenza”. E le mancate verifiche? “Programmazione
negligente, contrari a criteri di opportunità per nulla collegata a uno scambio
di denaro “. L. tre Mercedes a prezzi stracciati? “Rientravano nella fisiologia
commerciale”. E come spiegare i versamenti in contanti, seguiti da scarsi
prelievi, indice di un abnorme disponibilità di cash? Ma naturalmente con la
“possibilità di disponibilità economiche provenienti dalla famiglia originaria,
del tutto benestante” (eredità? Paghetta? Il pm non allega alcuna
documentazione) è-si tenga forte presidente-con “un’accentuata disponibilità a
risparmio “. Ecco: un generale che preleva 4 milioni l’anno per mantenere la
famiglia deve essere per forza un grande risparmiatore, anche perché le auto
erano a metà prezzo è le cene le pagavano gli imprenditori. Ferma restando
l’archiviazione penale, dinanzi a un quadretto così edificante, in un paese
almeno decente scatterebbe un procedimento disciplinare per mettere da parte
l’alto ufficiale. Sempreché l’interessato non sentisse il dovere di dimettersi.
Invece toschi ha fatto carriera, quasi sempre nella Toscana di Renzi, sempre
all’ombra del gen. Adinolfi, grande amico del premier. Alla luce di questi
fatti, signor Presidente, non ritiene opportuno rispedire al mittente il d.p.r.
che la nomina a comandante generale? In caso contrario, cosa penserà un cittadino
che si vede entrare in casa la Finanza? È cosa penserà un onesto finanziere che
ogni mattina va a controllare se i contribuenti pagano le tasse e deve a
destarli se fanno 1/10 di ciò che ha fatto il suo capo? Tra le sue riserve
sulla nomina di Toschi, c’era per caso quell’indagine? Le risulta che Renzi la
conoscesse? E, se sì, ha promosso Toschi nonostante questo, o proprio per
questo?.
La
vicenda è caduta in silenzio assordante, a cominciare da quello degli altri
media, eppure il caso mi sembra eclatante. Se Fabio Fazio fosse stato una
persona moralmente corretta, avrebbe dovuto porre quesiti del genere, nella
intervista già citata, invece niente. Sempre nella stessa intervista Renzi ha
fatto di più. Dopo aver argomentato sulla sua intenzione di non voler
polemizzare con i magistrati ha affermato letteralmente, a proposito della
distinzione istituzionale dei ruoli: “Io
faccio le leggi e loro le applicano” così chiarendo in modo tanto involontario
e quanto, proprio per questo incontrovertibile, la sua concezione del parlamento
e dei parlamentari, anche quelli del suo partito. Non contento ha confuso il 416bis,
articolo che riguarda l’associazione mafiosa, con il 41bis che riguarda il
regime di detenzione penitenziaria il cosiddetto carcere duro normativa non toccata dal suo governo nonostante si
sia vantato del contrario. Per non parlare degli strafalcioni di storia.
Raffaele Licinio, storico di spessore, lo ha giustamente rilevato in un suo
post su Fb. Ha dichiarato, Renzi sempre
nella intervista da Fazio, che il passo del Brennero fu teatro della più grande
stage di combattenti della 1° guerra mondiale, mentre notoriamente, all’epoca
il Brennero non era zona di confine, ma territorio austriaco e relativamente
lontano dal fronte. Fu investito dai combattimenti solo verso la fine del
conflitto all’esito della avanzata italiana dopo la vittoria sul Piave. Insomma
Renzi dice sciocchezze in libertà senza che nessuno abbia il coraggio di
fargliele notare. Al contrario Eugenio Scalfari ha avuto il coraggio di dire in
un suo editoriale su “La Repubblica” che è stato magnifico e che ha convinto
molti italiani e votare al referendum sulla riforma costituzionale secondo i
suoi desiderata. In questo contesto di bugie Renzi ha ammesso
l’esistenza di una questione morale
nel Pd, ma la più grave di tutte riguarda proprio la sua persona nonché del suo
cerchio magico.
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