lunedì 29 dicembre 2014

Come il cacio sui maccheroni. In onore di Giovanni Pesce, Nori Brambilla, Roberto Bentivegna e di tutti i gappisti della resistenzaza al nazifascismo.


 Qui apro solo una parentesi, forse lunga, per altro solo apparente, nella serie dei post dedicati a Renzi, la storia e la guerra.  Questa parentesi mi è quasi imposta da un fatto casuale. Succede infatti qualcosa che mi dà la conferma  sperimentale di quanto mi affanno a dimostrare concettualmente, ossia che oggi il dominio culturale  si esercita avendo tra i suoi presupposti, quello fondamentale della rivisitazione della storia che si sciorina su due versanti, quello della demolizione della storia come disciplina specifica, e al contempo quello della sua revisione fino a capovolgere le conclusioni sin maturate sino al novecento, prescindendo in modo eclatante dai fatti; o per meglio dire, i fatti vengono menzionati per quello che sono, ma esposti in modo tale, e con un linguaggio per cui le conclusioni che se ne traggono  stridono con i fatti stessi, quei fatti il cui solo racconto ordinato, logico e conseguente, induceva ad un giudizio trasparente.  C’è questo, nel libro di cui voglio parlare, e di più c’è anche la prova dell’affinità tra pensiero liberale e pensiero nazifascista. Il problema è che alcune concezioni ormai fanno parte del senso comune, e si collocano a monte di scelte politiche o ideologiche, ragion per cui non è possibile etichettare politicamente questo tipo di elaborazione con i criteri imperanti.  Quindi come cacio sui maccheroni, insieme anche alle notizie di questi giorni della “ufficializzazione” delle torture della Cia sebbene condite nei resoconti giornalistici, dalla precisazione per cui, detta  “ufficializzazione” costituisca l’ennesima riprova della vocazione democratica degli Usa contando sulla ormai proverbiale memoria corta di noi altri che scordiamo come le torture furono sempre ufficialmente rilevate a distanza di tempo, in occasione di tutte le campagne militari Usa dal dopoguerra ad oggi, per poi consentire agli Usa medesimi di ergersi a baluardo internazionale dei diritti umani. Perfino il ricorrente omicidio di cittadini Usa di colore, sebbene inermi, da parte delle polizie locali, viene interpretato come un problema la cui gravità non intacca la forza egemonica di questo pur grande Paese, in grado di proporsi ancora come modello di democrazia a dispetto dell’evidenza. Ma tornando al dunque, come cacio sui maccheroni, vengo a conoscenza casualmente tramite lettura de “La Repubblica” di Martedì 11 novembre 2014, a pag. 50 dove trovo una recensione curata da Simonetta Fiori di un libro di “storia” guarda caso, scritto da Santo Peli, autore sconosciuto a me sino a quel momento, che si intitola “Storie di Gap” con sotto titolo “Terrorismo urbano e Resistenza” edito da Einaudi 2014. Si badi bene, la pubblicazione è recentissima, il giornale è “La Repubblica” e l’autrice della recensione è Simonetta Fiori quindi né il giornale né la giornalista né la casa editrice, possono essere considerati specificamente etichettati come di destra nell’attuale panorama politico ed editoriale, e questa circostanza è importante ai fini della tesi che voglio dimostrare. La recensione della Fiori mi appare asettica, con una illustrazione precisa ed esauriente dei contenuti del libro senza offrire un suo giudizio soggettivo nel merito dei problemi posti dal libro medesimo. Santo Peli è un autore che testimonia quanto sostenevo in merito alla crisi delle discipline storiche e del nesso preciso tra queste e l’esigenza politica di attenuare il giudizio negativo sul nazismo, tramite una sorta di sterilizzazione dei fatti e delle tragedie che ha provocato, ottenendo per questa via una qualche forma di sua oggettiva legittimazione, spostando, e questo è davvero indegno, il mirino della critica storica su chi il nazifascismo combatté con tutte le sue forze.   Intanto il sottotitolo è già eloquente di per sé: “Terrorismo urbano e Resistenza”.   L’associazione del concetto di terrorismo ai gappisti che sono a tutti gli effetti resistenti e combattenti a pieno titolo, molti dei quali persino insigniti di medaglia d’oro al valor militare, è un insulto tanto vile quanto gratuito, spacciato poi per “storia”. Al colmo dell’insulsaggine, questo autore cerca di giocare sulle parole adducendo a sostegno della sua tesi aberrante, la citazione di un documento del Corpo Volontari della Libertà per altro ripetuta in nota al capitolo primo a pag. 27 che definisce i Gap come “Formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica contro i nemici e i traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del nemico ecc.”. E qui siamo solo a pag. 7 nell’introduzione. Si tratta di un meschino gioco di parole, peraltro evidente. C’è una differenza abissale tra il voler terrorizzare i “nemici e i traditori”, in tempo di guerra e il terrorismo tout-court, praticato in tempo di pace sia pur relativa, ed uno storico serio dovrebbe evidenziare tale differenza, non giocarci sopra.Il terrorismo come è inteso oggi non può essere ricompreso in questo documento citato del CVL. Sfugge inoltre all’esimio storico che furono proprio i tedeschi a coniare l’appellativo di terroristi a danno di tutto il movimento partigiano, senza contare che se si vuol usare il termine nel suo significato più autentico, bisogna comprendere che tale concetto implica la casualità delle vittime prescelte, esattamente come è avvenuto in Italia dalla fine degli anni ’60 sino ai primi anni ‘80. Al contrario gli obiettivi dei Gap erano ben ricompresi in specifiche categorie di persone che praticavano davvero il terrore sulla popolazione inerme. Così scrivendo il Prof. Peli compie un radicale quanto clamorosa inversione di giudizio storico sul nazifascismo. Né tale conclusione si poggia solo sul tratto citato. Infatti egli ribadisce che quello dei Gap è terrorismo urbano per le modalità proprie di operare “…… combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, sia con uccisioni mirate di singoli individui sia con attentati dinamitardi;”   Nella introduzione, inoltre il nostro autore opera una drastica e radicale contrapposizione tra la situazione in montagna e quella in città, come se lo stato di guerra fosse diversamente graduabile tra la montagna e le città. Tale netta divaricazione è strumentale ad una polemica “postuma” per così dire, col dissolto Partito Comunista Italiano, in cui ho militato per alcuni anni senza condividere le scelte politiche, come testimonia il mio post su Berlinguer. Ma la polemica politica è una cosa e la ricerca storica dovrebbe essere altro, ma non per questo autore. Tali affermazioni presuppongono necessariamente, se la logica conta qualcosa, che negli anni dal ’43 al 45 in Italia non c’era la guerra, altrimenti gli atti dei gappisti, coerentemente dovrebbero essere definiti come atti di guerra, così come è avvenuto sin ora. Solo che per il Prof. Peli dà conto, a modo suo, del perché sino ad oggi non si è equiparato l’azione dei gappisti a quello dei terroristi. Infatti scrive, sempre nella sua introduzione: i Gap sono organizzati e diretti dal Pci, e dunque restano, durante la Resistenza e anche nei decenni successivi, connotati politicamente in modo molto più marcato di quanto accade per tutte le altre formazioni partigiane, che progressivamente subiscono un parziale processo di fusione nel Corpo Volontari della Libertà”. Intanto il già citato documento del CVL smentisce l’estraneità dei Gap, al resto della resistenza ma la smentisce egli stesso più avanti quando ricorda che altri partiti e organizzazioni della resistenza collaborarono con i gappisti quantomeno nel supporto logistico. C’è inoltre un’altra dose di falsità in queste affermazioni perché è accertato in modo incontestato, neppure dal Prof. Peli che il Pci fu il principale organizzatore di tutta la resistenza e notoriamente, le brigate Garibaldi, che combattevano sui monti, erano le più numerose e combattive.  Infatti c’è stato un lavorio culturale negli anni del dopoguerra per evitare che si affermasse definitivamente la convinzione per cui il Pci fosse stato l’esclusivo fautore della resistenza, convinzione assai diffusa e accettata generalmente sia pure con motivazioni contrastanti. Rimane il fatto comunque che il Pci fu il principale promotore della resistenza tanto in città quanto in montagna. Ma il Prof. Peli come dicevo, crea, in modo per me assolutamente antistorico una scissione drastica oltre il ragionevole quanto afferma, sempre nell’introduzione che: “..la scelta di combattere per la Liberazione  coincide con l’ascesa ai monti, gesto definitivo e catartico,   ingresso in una nuova vita comunitaria, fatta di <stenti e di patimenti>, e però anche ricca sperimentazione di una rinnovata dimensione esistenziale e politica”  mentreLe città sono il luogo della fame, del mercato nero, delle retate improvvise, delle deportazioni di ebrei e operai, dei bombardamenti.”   Ecco dunque come le categorie di una psicologia di risulta sostituiscono le categorie della storia. Intanto è privo di significato logico e conseguente l’uso dell’aggettivo definitivo, mentre per il resto di questa citazione, pare dia l’impressione che la guerra quasi non esiste, quasi che in montagna ci si andava a fare una scampagnata, o poco ci manca, e sì, qualche volta si sparvava pure, ma per il resto è tutta una catarsi che fa stare meglio, e poi c’è, nientedimeno che una vita comunitaria in cui gli stenti e i patimenti sono messi tra virgolette, a richiamare il ritornello di uno dei canti partigiani “I ribelli della montagna” le cui strofe iniziali “Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne/cercando libertà tra rupe e rupe/ contro la schiavitù del suol tradito”  sono all’epigrafe di questa pubblicazione. Dunque non esistevano i bombardamenti, o meglio li cita senza mai trarne le logiche conseguenze sulla vita delle popolazioni italiane. Né si pensi che tali mie conclusioni siano forzate, infatti i concetti vengono ribaditi sempre nell’introduzione dove  si legge ancora “Che anche la guerra partigiana in montagna sia di necessità combattuta con un susseguirsi di imboscate, di agguati e precipitose ritirate, poco importa; in montagna si fa vita collettiva, si dibatte, si scrivono giornaletti, si sperimentano nuove forme di partecipazione alle decisioni. Le bande partigiane, almeno tendenzialmente .. sono aperte a tutti, a prescindere dalle adesioni un partito (e del resto all'inizio sono ben pochi partigiani con una sufficiente alfabetizzazione politica). Nulla di tutto ciò può accadere nell'organizzazione e nella pratica della lotta armata in città: né lo consentono le regole della clandestinità e la stretta dipendenza dal partito comunista.”  Ecco il punto dolente del Prof. Peli, ossia la polemica con il Pci, come presupposto costante di tutto il libro. Sembrerebbe, a leggere queste righe che la “stretta dipendenza dal partito comunista” sia un che di settario, quasi che ad altri fosse preclusa la partecipazione alle attività dei Gap, o che il Pci medesimo in quegli anni fosse in grado di precludere ad altre formazioni della resistenza l’attività di guerra partigiana in città. Circostanza neppure vera in toto, perché vi fu come, ribadisco, come dirà chiaramente più avanti oltre lo stesso Peli, la collaborazione di altre formazioni della resistenza. Comunque si potrebbe operare una interpretazione del pensiero di questo autore con la banalissima applicazione della proprietà transitiva, per cui se i gappisti furono terroristi, e se i gappisti erano rigorosamente communisti, il Pci medesimo fu terrorista. Uno dei problemi di fondo di questo autore, continuo a ribadire, è quello di anteporre le sue convinzioni ideologiche all’analisi dei fatti, e per illustrare meglio tutto ciò ricorro alle sue stesse parole. Qui siamo al capitolo primo a pag. 15: “I comunisti, da subito, optano per un modello basato sulla guerra per bande, sull’esempio jugoslavo, che prefigura una lotta di popolo; i dirigenti del Pda (partito d’azione) o almeno parte di essi (Ferruccio Parri in particolare) preferirebbero la creazione di un esercito più tradizionale, guidato da quadri militari professionali. Il primo modello rimanda a una idea di popolo in armi e dunque anche a una vasta mobilitazione politica che affida ai partiti un ruolo centrale; il secondo modello continua a privilegiare la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”. Qui l’interpretazione si fa ardua, perché sulla base di quanto scrive in questo libro non è chiaro cosa voglia dire. Cerco di analizzare: Ferruccio Parri fu il principale esponente delle brigate di Giustizia e Libertà, che si ispiravano al Partito d’Azione che erano organizzate alla stessa stregua delle brigate Garibaldi che erano dirette dal Pci e dai socialisti. Ora è assolutamente comprovato che anche Ferruccio Parri, a tutto ammettere, fece di necessità virtù e si adeguò, nel migliore dei casi al reclutamento di civili ispirati da idealità politiche, né il Prof. Peli nega la circostanza, al contrario, altrove in questo libro lo dice chiaramente. Quindi il tratto citato è privo di senso, a meno che l’autore non voglia alludere alla nota questione dell’ “attendismo”, termine usato storicamente, per alludere a posizioni politiche e militari presenti nella resistenza,  soprattutto nel Partito d’Azione, secondo cui la lotta partigiana dovesse svolgere un ruolo di mero supporto alla forze alleate, attenersi alle loro direttive, senza darsi una propria e autonoma strategia  e quindi limitarsi ad “attendere” l’arrivo degli alleati. Solo che, se di questo si tratta, non si capisce perché il Prof. Peli non si richiami esplicitamente alla tale circostanza, o meglio, una supposizione posso farla, e consiste nel ritenere che egli preferisca connotare come dato “storico”, esito attuale delle sue personali ricerche, quella che era un’opzione politica soggettiva poi rivelatasi come minoritaria, presente nel dibattito resistenziale ab illo tempore. Miseria della storia postmoderna. La convinzione per cui la guerra la debbano fare solo gli eserciti regolari, è propria di Santo Peli e il passo citato credo conferisce a tutto il libro una cifra intellettuale davvero bassa. Di più, né i tedeschi né gli alleati sopportavano che gli italiani avessero un loro esercito, tant’è che i tedeschi preferivano che i giovani italiani lavorassero per loro anziché combattere al loro fianco, per cui i loro rastrellamenti erano finalizzati appunto alla produzione e non all’arruolamento militare alla Repubblica Sociale di Salò. Anche gli alleati, dopo svariate insistenze del governo italiano consentì la formazione di un esercito ma a condizione che dipendesse esclusivamente dai loro comandi, tant’è che dopo l’episodio di Montecassino, fu spostato in Gran Bretagna per partecipare allo sbarco in Normandia. L’esercito italiano, quello che dipendeva da Badoglio e dal re, non per colpa sua, lasciò che Roma cadesse in mani tedesche tranne la reazione eroica e spontanea della divisione “Granatieri di Sardegna” insieme ad una parte della popolazione. Insomma lo stato italiano nel periodo storico di cui trattiamo non c’era in alta Italia e non poteva esserci, di conseguenza il Prof. Peli fa una polemica del tutto strumentale di infimo livello.  Del resto non sarebbe una posizione originale, ma tanto vale esplicitarla in un altro tipo di pubblicazione, senza bisogno di dare del terrorista a persone come Giovanni Pesce, come tutti gli altri gappisti che furono quadri politici prima di tutto e non assassini a sangue freddo, come vuol fare intendere. Comunque chiudo qui le riflessioni sulla “raffinatezza” del prof. Peli circa i criteri che privilegiano “la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”, di cui sopra. In realtà il Prof. Peli pensa che la resistenza non andava fatta. Il pensiero può pure avere una sua logica, solo che va rappresentato per quello che è, ossia un pensiero del prof. Peli, neppure tanto profondo, se mi è consentito, che con la ricerca storica ha poco a che spartire. Nel primo capitolo, proseguendo nella analisi del testo, sostiene che nelle città non c’era in effetti nessun bisogno di fare resistenza perché i tedeschi erano buoni o meglio, udite udite, erano cattivi solo in montagna. Infatti cita la strage di Boves, del 19 settembre 1943, come strage gratuita, ma siccome la notizia non si era diffusa rapidamente nelle città, in esse si respirava un’aria tranquilla. Da non crederci ma è proprio così. Ora a parte la contraddizione in cui cade senza neppure rendersene conto il Prof. Peli quando dà conto della strage di Boves in montagna, con la tesi precedente che ho riportato integralmente circa quella sorta di levità che egli attribuisce alla scelta di andare a combattere i tedeschi in montagna, dove, ora lo ammette, non è che ci fosse tanto di che fare catarsi e scrivere giornaletti come se non ci fosse nulla di autenticamente drammatico. Comunque, udite ancora, “…. la percezione della brutalità dell’occupazione tedesca e della guerra civile a essa strettamente intrecciata non è chiara, nelle città, fino a quando non iniziano gli attacchi gappisti. I comandi militari tedeschi nelle città tengono un profilo, se non conciliante, in generale alieno dal prendere drastiche misure d’ordine pubblico, a meno di essere direttamente attaccati, mentre rispondono con ferocia annichilente alla formazione dei primi nuclei partigiani in montagna”. Si scopre così che i tedeschi furono concilianti, seppure limitatamente alle città. Ma si badi al linguaggio. Le attività dei tedeschi, ossia deportare ebrei e lavoratori, per sua stessa ammissione, è ricompresa nella categoria dell’“ordine pubblico”, e le atrocità tedesche le connette con la guerra civile. Insomma la resistenza fu anche per il prof. Peli una guerra civile. Tesi non certo originaria e tuttavia infondata. In Spagna, tanto per capirci, ci fu vera guerra civile, per ovvie ragioni, ma nel resto d’Europa, a partire dal 1939 ci fu una guerra mondiale, ed è il concetto di guerra mondiale che il prof. Peli proprio non accetta. Medesimo discorso fa questa corrente di pensiero, di cui evidentemente il nostro autore è solo un esponente, a proposito delle foibe. Quasi si rimuove la circostanza della guerra e si attribuisce alla resistenza comunista la responsabilità delle tragedie accadute. Tornando al testo voglio ripetere il concetto per cui la deportazione di ebrei e lavoratori erano sostanzialmente legittime per il prof. Peli, e tali da non creare tragedie per la popolazione. Ora se così fosse non si comprenderebbe perché i napoletani insorsero tra il 27 e  il 30 settembre 1943,  cacciando i tedeschi prima dell’arrivo degli alleati, e perché alcuni giorni prima pure i romani insorsero seppure con esiti diversi. Il punto mi pare questo. Il prof. Peli ritiene sostanzialmente legittime, tollerabili e tollerate le attività tedesche nelle città se non fosse per l’azione dei Gap, che non a caso prima ha dichiarato essere terroristi. Infatti c’è un paragrafo del primo capitolo che recita proprio così a pag. 22: “Creare un’atmosfera di guerra” .  Qui torna un uso spietato e violentissimo delle parole. Vi immaginate se tra bombardamenti, razionamento alimentare, rastrellamenti per deportare ebrei e lavoratori, nelle città italiane, con la popolazione che pativa l’assenza di notizie sui loro cari dal fronte, o di notizie tragiche, ci fosse bisogno di creare artificiosamente un’atmosfera di guerra?. Ebbene, la risposta per il prof. Peli è positiva. La guerra in città la portarono i Gap, e se credete che sia una mia forzatura polemica leggete quanto scrive lo stesso autore a pag. 20: “inizialmente sono soprattutto i fascisti a imporre ed eseguire le rappresaglie in città, e i tedeschi nicchiano, forse consapevoli che i Gap sono lo strumento scelto per creare l’atmosfera di guerra, che è contraria al loro desiderio di sfruttare le risorse industriali e la forza lavoro concentrata nel triangolo industriale col minor dispendio di energie. Perseguendo questo scopo, l'esercito occupante inizialmente sarà piuttosto restio a ricorrere a misure repressive molto dure, che avrebbero, tra l'altro, l'effetto di rendere ancora più complicato lo svolgersi delle attività produttive, alle quali tedeschi sono massimamente interessati. Anche l'allungamento del coprifuoco, o il divieto di transito per le biciclette, sono risposte agli attacchi del Gap prese controvoglia, che gli occupanti vorrebbero evitare se appena possibile. La percezione della barbarie, della brutalità del << nuovo ordine>>, e dunque affievolita sia dalla sapiente regia tedesca, capace di atteggiarsi come ragionevole e lungimirante freno alla truculenze del fascismo repubblichino, sia dalla specifica condizione di una nazione che per vent'anni di fascismo hanno abituato alla prima azione di ogni forma di libertà, all'assenza di ogni certezza del diritto.”   Riepilogando quanto si evince esplicitamente sin qui per il Prof. Peli i tedeschi erano cattivissimi in montagna, e buoni in città al punto che la popolazione apprezzava lo stato di cose e il coprifuoco non era connesso ad una situazione di guerra come i bombardamenti, ma a una questione di ordine pubblico. Insomma i tedeschi come Giano bifronte, mentre i fascisti italiani erano cattivi sia in città che in montagna, e i tedeschi svolgevano un ruolo di freno su di loro. Ora, sdiamo di fronte ad una falsificazione storica evidente. Al di là degli episodi specifici cui si fa riferimento nel libro, sul piano generale i fascisti erano del tutto subalterni ai tedeschi, e tutto il loro operare era funzionale ai loro interessi, senza nessuna possibilità di scelte autonome. La Repubblica Sociale di Salò era una mera propaggine della Germania hitleriana, non a caso furono i tedeschi a liberare Mussolini dalla restrizione sul Gran Sasso ad opera delle autorità dell’Italia monarchica, e lo insediarono con un potente rafforzamento della loro presenza militare nell’Italia del centro nord, e giunsero ad annettersi direttamente dal 1° ottobre 1943, le provincie di Trieste, Friuli, Gorizia, l’Istria, per non parlare del già tedeschizzato Alto Adige, esautorando del tutto le autorità italiane. Come giustamente rilevano Salvatorelli e Mira, storici di tutt’altra forza rispetto al Prof. Peli, Mussolini accettò passivamente la decisione tedesca a riguardo la cessione di territori per la cui annessione si era battuto e che fu motivo non secondario della sua ascesa al potere nel ’22. (Confr. “Storia d’Italia nel periodo Fascista” di Salvatorelli e Mira, ed. Mondadori 1969 pag. 558, secondo volume). Insomma, sul piano generale una separazione di responsabilità tra tedeschi e fascisti in merito alle atrocità della guerra non è possibile. Concludendo i fascisti italiani, autonomamente, non avrebbero avuto la forza necessaria per compiere le efferatezze che commisero, e il dato è universalmente accettato e non contestato neppure dal Prof. Peli, la cui ricerca si applica su dettagli, e la natura di questi dettagli non è tale da invertire il giudizio storico generale consolidato sin qui, come invece il nostro autore cerca di fare.


martedì 4 novembre 2014

La soria e la guerra. Renzi e il partito unico 2



 Sarebbe opportuno che i politici e gli intellettuali “di sinistra” si ponessero il problema di una verifica seria sul fatto che tutti i problemi caratterizzanti e connessi alla seconda guerra mondiale abbiano trovato soluzione, ovvero se ne ve ne siano alcuni tuttora aperti e presenti sullo scenario internazionale atti a riproporre conflitti armati non limitabili a livello locale, e a sottendere, nel frattempo, le dinamiche politiche ed economiche in atto. Quel che mi preme scalfire è un ottimismo tanto cieco quanto imperante per cui le guerre totali non siano più possibili, e questo nonostante una crescente tensione internazionale e gli innumerevoli conflitti, il cui localismo, per altro così esteso, deve essere considerato come dato poco rassicurante, perché gli attori di questi conflitti sono attori globali. Certo l’equilibrio del terrore legato all’uso di armi atomiche o non convenzionali c’è ed è reale, ma si sta lavorando col massimo impegno ad alterarlo. Tutto ciò non certo per pessimismo cosmico o per ridurre a poca cosa tutti le novità intervenute, dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale molte delle quali sono di portata davvero epocale, per abusato che sia questo aggettivo, ma per riequilibrare una visione della storia tutta ideologicamente schiacciata sulle novità, sino al punto da resettare la storia stessa quasi fosse un computer. Invece ogni guerra lascia tracce che piace chiamare veleni in coda e per spiegarmi meglio farò un passo indietro e parlerò della pace di Versailles, che concluse la prima guerra mondiale, su cui voglio aprire una parentesi, proprio per il valore paradigmatico della vicenda, a proposito di veleni in grado di favorire guerre successive. A volte le valutazioni degli storici su fatti del genere non sono e non possono essere esaustive, proprio perché le vicende belliche hanno implicazioni in tutti i campi molti dei quali sfuggono agli storici di professione. Per questo riporto integralmente un passo tratto da Gregory Bateson, famoso antropologo e psicologo, la cui fama non è dovuta certo a lavori di storia. Da “Verso una ecologia della mente” nella versione italiana pubblicata da Adelphi nel 1999 traggo il passo che comincia a pag. 489 che ripoterò più avanti, ma con un avvertimento. Non condivido molto di Bateson come psicologo, perché le mie opzioni in materia privilegiano alte scuole di pensiero; inoltre anche come storico lascia molto a desiderare, per questo la citazione che faccio serve a me solo a sottolineare l’importanza dell’aspetto morale e psicologico di fondamentali vicende della storia che raramente, a quel che mi consta, gli storici di professione colgono in pieno, come ripeto, mentre Bateson, certamente non da solo nel novero dei personaggi notevoli, lo sottolinea con enfasi particolare, non a caso la citazione che segue è un capitolo intitolato significativamente “Da Versailles alla Cibernetica”, ed eccolo: “ I più, tra voi, non sanno come si giunse a stipulare il trattato di Versailles.  La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei primi nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un idea: L’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo concesso loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in 14 Punti; ed egli comunicò questi 14 Punti al presidente Wilson. Se avete intenzioni di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci “ne annessioni, né riparazioni di guerra, né distruzioni punitive….” E così via. E i tedeschi si arresero. Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del trattato; e così per un altro anno, essi continuarono a patire la fame. La conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in the Economic Consequences of the Peace (1919). Il trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, “la tigre”, che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei 14 Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera con ii tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano. Si trattò di una delle più grandi svendite della storia della nostra civiltà, un evento tra i più straordinari, che portò di filato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) ad uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, m che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate. Non soltanto la seconda guerra mondiale è stata la risposta appropriata di una nazione che era stata trattata proprio in questa maniera; ciò che è più importante e che era lecito aspettarsi, da questo tipo di trattamento, uno scadimento morale di quella nazione. Lo scadimento morale della Germania ha causato il nostro scadimento morale. Ecco perché dico che il trattato di Versailles nell’ambito degli atteggiamenti morali.” Cito questo testo, solo e soltanto perché è l’unico che sono riuscito a trovare, attribuibile ad un personaggio importante della cultura internazionale, che analizza quell’avvenimento davvero significativo, da un punto di vista morale e psicologico, e non solo strettamente storico, come avviene nella più parte dei casi, anche se trovo l’accostamento tra il trattato di Versailles e la cibernetica improponibile, e tuttavia, ribadisco, le questioni psicologiche e morali lasciano il segno nella storia, anche se condivido il classico principio per cui la storia la fanno gli uomini, ed in sé non ha nulla di deterministico. Ragion per cui mi tocca ribadire che i giudizi morali e psicologici non dovrebbero prescindere dai fatti della storia così come sono accaduti. Per farla breve ritengo che il trattato di Versailles sia stato un grande imbroglio sotto ogni profilo e che questo fatto non è assolutamente privo di conseguenza sullo sviluppo successivo degli avvenimenti. Poi non condivido più nulla della ricostruzione storica di Bateson anzi ritengo che abbia falsato quegli avvenimenti ma in modo non strumentale rispetto ai fini che si prefiggeva, solo che, trattandosi di un pensatore liberale ha assunto senza troppo riflettere una certa vulgata su come andò effettivamente la storia del trattato di Versailles, perché non risponde al vero, (avete mai visto un capo stato ingenuo) che Wilson fosse quella personalità pura da partecipare al trattato per scopi eminentemente turistici, che egli vuol far credere che sia stato. La vicenda dell’entrata in guerra degli Usa e il ruolo che ebbe Wilson nel rendere popolare una guerra così lontana dal vissuto degli americani, a tal punto da arruolare su base volontaria, un numero che raggiunse gradualmente i due milioni di soldati, è una prova di scaltrezza. La vicenda prova oltre ogni dubbio la doppiezza di Wilson, il quale fu rieletto per un secondo mandato sfruttando la convinzione generale che mai avrebbe condotto il Paese in guerra. Di tale doppiezza dà prova anche nella vicenda del trattato di Versailles. Infatti Bateson dice il falso quando asserisce che il ministro italiano Orlando fu tra gli estensori del trattato di pace, e lo condisce con una buona dose di irritante razzismo antitaliano con quella frase: Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano. De resto egli è un tipico intellettuale postmoderno. Il problema è che Orlando, notoriamente non partecipò per protesta alla fase conclusiva del trattato, perché all’Italia non vennero riconosciute le annessioni territoriali, l’Istria e la Dalmazia così come previsto dal trattato di Londra del 26.4.1915, per altro segreto, in base al quale l’Italia cambiò schieramento, e così da essere alleata degli imperi centrali, Austria e Germania, dichiarò loro guerra al fianco di Francia e Inghilterra. Il tradizionale e storico asservimento dei Savoia e del ceto politico italiano quasi sempre corrotto, agli interessi anglosassoni costò all’Italia liberale, anche la beffa oltre al danno, e che questo abbia avuto un suo specifico peso sulla crisi italiana sfociata nel fascismo. Il guadagno realizzato con quell’imbroglio fu enorme, senza il quale le sorti della guerra, con tutto quel che ne seguì, sarebbero state diverse, verosimilmente. Ma nessuno si sofferma su questo. Non credo sia opinabile il dato che l’entrata in guerra dell’Italia a fianco degli imperi centrali avrebbe completamente sovvertito i rapporti di forza tra i due schieramenti, rendendo perfino impraticabile l’intervento Usa, che nel 1915 non avevano un apparato militare di forze terrestri in grado di intervenire tempestivamente sul teatro europeo. Ma tornando invece a focalizzare il trattato di Versailles, va ribadito che i famigerati 14 Punti di Wilson, il vero dominus della situazione, per via dei prestiti di guerra concessi agli alleati europei dissanguati dalla guerra, furono usati a “forchetta” sull’Italia e sulla Germania, perché ingannarono “di dritto” prima la Germania per indurla alla resa, come dice Bateson, e poi “di rovescio” l’Italia. Quindi i 14 Punti furono applicati a danno dell’Italia ma furono bellamente ignorati a danno della Germania. Ma tutto questo a Bateson, che non è uno storico, giovi ribadirlo, non interessa, perché, semmai dovrebbe interessare di più l’Italia e gli italiani, che ancora oggi, ad esclusione di Gramsci, non riflettono su come si formano i ceti politici che hanno dominato e ancora dominano l’Italia, producendo governanti derisi sempre la stessa fatuità oggi come allora. Invece dice una verità incompleta Bateson quando afferma che: “Si trattò di una delle più grandi svendite della storia della nostra civiltà, un evento tra i più straordinari, che portò di filato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) ad uno scadimento morale della politica tedesca. La vicenda italiana non viene presa in considerazione ma conferma e aggrava ulteriormente il quadro e non lo contraddice. Comunque ho ripreso la vicenda del trattato di Versailles perché costituisce a mio parere, l’esempio più macroscopico del fenomeno che mi piace definire dei veleni in coda, perché anche il secondo conflitto ne ha lascito più di uno. Il ruolo di “nemico” e quello di “alleato” sono più ambivalenti di quanto non si creda, e anche questa è una delle lezioni di Versailles Si combattono nemici conclamati sapendo che si mettono in difficoltà gli alleati per un proprio vantaggio. Gli Usa sono avvezzi a questa tattica. I disastri in Europa hanno sempre creato profitti in Usa, e poco importa se la responsabilità fu interamente europea sino alla guerra ’14-18, ma d’allora in poi gli Usa hanno sempre manipolato l’Europa a loro vantaggio, grazie proprio alla china determinatasi con i prestiti di guerra prima e poi con l’occupazione militare e il dominio politico esercitato con ogni mezzo dopo, grazie ad un ceto politico in vario grado succube e corrotto, come quello italiano, obbediente prima  degli inglesi e poi degli Usa. Tuttavia non solo corruzione e sottomissione fu, ci furono anche ricatti e minacce. Pensare che eventi come l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, e più ancora l’omicidio di Aldo Moro di trent’anni dopo siano proprio come ce li hanno raccontati e che siano stati avvenimenti appunto evenemenziali, passati senza lasciare un segno profondo per quanto impercettibile ad occhio nudo significa, a parer mio, peccare di una ingenuità nient’affatto veniale. Non c’è congresso o elezioni come ogni manifestazione di vita politica civile in grado di imprimere svolte politiche come gli attentati, intrighi opachi e via dicendo, solo che non se ne parla mai, ovviamente.  Ma torno ora agli esiti dell’ultimo conflitto. Il primo dei veleni in coda deriva appunto nella sconfitta di Hitler a Stalingrado, e si chiama Unione Sovietica. Il fatto che nel dopoguerra l’Urss sia addivenuta al rango di grande potenza internazionale non fu di estremo gradimento degli Usa, i quali avrebbero preferito una Unione Sovietica comunque logorata al pari degli altri partecipanti al conflitto stesso, se non del tutto soccombente nel conflitto, invece in concomitanza della guerra questa nazione realizzò davvero un grande balzo sotto ogni punto di vista, e così non andava bene e la questione andava comunque risolta. Il secondo veleno, o forse il primo, è dato dalla questione ebraica, che, ha dato una giustificazione morale e storica e psicologica, per quanto strumentale allo Stato d’Israele, facendo così pagare ai palestinesi lo scotto di una tragedia che li riguardava alla stregua di come riguardava tutti noi. Invece per loro i guai seri si aggravarono in misura esponenziale. In realtà alla seconda guerra mondiale non è mai veramente succeduto un periodo di pace nel mondo. La guerra si è come attenuata nelle sue manifestazioni più eclatanti almeno nel teatro europeo, per il resto è proseguita in una modalità di punteggiamento spaziotemporale del globo. Infatti non cessò in Palestina, in Cina, e in Grecia, e poi in Corea, e poi in Vietnam e così via sino a quelle in corso, in un crescendo che sta toccando livelli assai pericolosi. La drammaticità di questa situazione è oggetto di cronaca, per quanto i media che dovrebbero fare cronaca si sono trasformati ormai in organi di propaganda. Poi c’è il terzo veleno in coda per quanto attiene alla situazione europea, anche la loro stretta concatenazione rende difficile metterle in un ordine di importanza. Non a caso la questione tedesca, che i media ci ripropongono in modo assai parziale e mistificante oggi, si è evoluta di pari passo con quella dell’Unione Sovietica, infatti il suo crollo è collegato con la riunificazione tedesca, e il mitico crollo del muro di Berlino, che tanto continua a far parlare di sé, con un corredo abnorme di falsità.  A livello di cronaca le due questioni oggi possono essere sintetizzate dalla guerra in Ucraina, guerra vera ed autentica, dai risvolti imprevedibili, e comunque rappresentata dai media come una delle tante guerre locali nonostante questa implichi uno scontro ormai diretto con la Russia di Putin. Comunque ora la collocazione della Germania nello scacchiere internazionale è fonte di problemi di grande portata, anche se sui media compare, come sola traccia dei contrasti con gli “alleati” Usa, le polemiche relative allo spionaggio della Cia ai danni della Merkel, poi subito rimossa dalle pagine dei media, come fosse cosa di poco conto. Poi c’è il più sottile, cui più si addice il termine veleno, è dato dal rogo dei libri e dalla persecuzione degli intellettuali, in stragrande maggioranza di orientamento politico progressista, con moltissimi comunisti, anche ebrei. Erano in molti ad essere ebrei e comunisti. Il fenomeno ebbe la sua manifestazione più plateale con il rogo dei libri avvenuto nella Bebelplatz di Berlino il 10 maggio 1933.