domenica 18 dicembre 2016

Il referendum 14 giorni dopo; Raggi, Sala e implicazioni varie



In premessa ribadisco un concetto trito e ritrito, sperando che giovi a qualcosa. Ai nostri giorni il tempo trascorre, nella percezione psicologica dei più, a ritmi innaturali, dettati essenzialmente da quelli mediatici, che triturano tutto, in superficie, a velocità fantastiche. Il tempo dedicato al racconto e ai commenti su un fatto sono in grado di dilatarne l’importanza percepita dai più. Adesso tiene banco la vicenda di dell’amministrazione romana dei 5 Stelle con l’arresto di Marra e Scarpellini, e, la polemica sulla capacità di questo Movimento di selezionare “classe dirigente”. A tal proposito vanno fatte poche riflessioni. I talk-show sono pieni di soloni, comunque politicamente orientati, che pontificano sul fatto che non si può improvvisare “la classe dirigente”. Peccato che costoro non si siano accorti che “l’uomo qualunque” al governo, e devo dire, ancora più frequentemente, la “donna qualunque” al governo, sia una moda ormai consolidata e introdotta da un tal Silvio Berlusconi e i suo accoliti. Peccato che nessuno se ne ricordi. Nessuno si ricorda di Irene Pivetti presidente della camera venuta dal nulla, e poi tornataci, per fortuna. Così come ci siamo scordati della Gelmini ministro della pubblica istruzione venuta anch’essa dal nulla, che con le sue gaffe, a proposito dei collegamenti tra CERN di Ginevra e i laboratori del Gran Sasso,   rivela effettivamente ignoranza profonda. E che questo fenomeno ha fatto scuola anche nel Pd. Anche la Boldrini è giunta alla presidenza della camera da “donna qualunque”, per non palare di Lotti e di tanti ministri e ministre del governo Renzi. Ci siamo già scordati della Boschi, ministro delle riforme costituzionali addirittura, di cui è lecito dubitare che sappia fare il classico cerchio con matita su un foglio di carta con l’ausilio di un bicchiere, magari capovolto. Ci si scorda perfino di un caso recentissimo, quello di Valeria Fedeli, laureata senza laurea, ministro della pubblica istruzione per meriti televisivi, ossia per aver sostenuto, in tutte le trasmissioni cui veniva appositamente invitata, come un disco rotto tesi inverosimili in favore di Renzi con imperturbabile faccia tosta, tanto da imbarazzare perfino qualche conduttore televisivo, gente assai prudente per altro, che, cercando di passare oltre per interrompere l’effluvio di sciocchezze veniva apostrofato con “ma mi lasci finire” . Questo e non altro è il merito che è valso la poltrona di ministro a Valeria Fedeli. Ma oggi no. La vulgata prevalente sui media è che siano i Cinque Stelle ad avere questo problema.  Voglio dire che sotto l’alibi delle competenze si nasconde un fatto squisitamente politico. Quelle che servono per governare bene si ottengono con lo studio e l’impegno politico costante e svincolato da interessi personali. Sono convinto che i 5S di Roma abbiano attivisti colti e preparati in grado di svolgere bene il compito proprio di una giunta comunale, ma la Raggi ha “programmaticamente” e pregiudizialmente evitato di ricorrere a un tal bacino preferendo personalità affermate, le più avvedute delle quali, oneste e preparate, ma politicamente disimpegnate, appena hanno colto il clima di strumentalità si sono subito defilate, vedi il caso di Marcello Minenna. Il sindaco Raggi, sotto il profilo politico, dal punto di vista di chi vuol cambiare le cose sul serio e non per finta, è indifendibile. Il Movimento farebbe bene a chiederne le dimissioni, come ha chiesto pubblicamente e opportunamente Aldo Giannulli, e a toglierle il simbolo nel caso, assai probabile, resti in carica con altra maggioranza. In politica si sbaglia, e malgrado la gravità degli errori, ci si può riprendere. Ma mantenere in vita una giunta col proprio simbolo, ma a tutela di interessi diversi, getterebbe un’ombra indelebile sul Movimento, omologandolo agli altri partiti. Del resto la vicenda Raggi, ha, come fondamento politico e ideale, la questione della collocazione di M5S tra destra e sinistra. Loro dicono che questa contrapposizione è superata, ed io che mi ritengo di sinistra, lo accetto pure, perché tutto ciò che è stata etichettata come “sinistra” negli ultimi decenni, va combattuta come la peggiore destra. Renzi viene dal Pd, che ha colluso con Berlusconi e ciò che rappresenta negli ultimi decenni, e che poi ha realizzato i punti salienti del programma liberista con un autentico odio di classe nei confronti del mondo del lavoro, quasi che fosse una vicenda personale, facendo elargizioni gratuite in denaro alle imprese, penalizzando i lavoratori senza ritegno e con derisione aggiuntiva manifestata dal fatto di qualificare come occupazione il fenomeno tragico dei voucher, grazie al quale alcuni lavorano poche ore senza neppure ricavare le spese vive che si sostengono lavorando, pur di rimanere “nel giro” e non finire nel dimenticatoio sociale più oscuro.   Salvo poi, il nostro Renzi,  a rivendicare il suo essere di “sinistra” solidarizzando con Marchionne nel momento di più grave tensione e di scontro con i lavoratori,  e proseguendo anche quando lo stesso trasferisce il gruppo Agnelli in Olanda.  Ecco, che qualcuno dica che questa sinistra va dimenticata in quanto tale, lo trovo comprensibile. Detto ciò la dialettica sociale rimane. M5S è un movimento sostanzialmente interclassista, si sarebbe detto una volta. E se la crisi del linguaggio non permette più di definire i fenomeni sociopolitici per quello che sono, pazienza. Di questi tempi lo trovo accettabile perfino l’ “interclassismo” dei 5S, ma il prosieguo della storia si incaricherà di dimostrare che l’interclassismo autentico non esiste, e che prima o poi bisogna schierarsi, o di qua o di là, e la Raggi è già schierata. Altra vicenda riguarda il sindaco di Milano, Sala, che con l’ipocrisia tipica di un ceto politico si è autosospeso, ossia non ha fatto un bel nulla perché tanto rimane sindaco indisturbato, verosimilmente sino alle prossime elezioni salvo risvolti giudiziari davvero clamorosi. L’autosospensione non mi pare un istituto previsto dalle leggi né dalle consuetudini, è un atto eversivo che tiene in sospeso una amministrazione di una grande città come Milano, già ostaggio di affarismo e corruzione. Sala personifica plasticamente tale situazione. Tutta la vicenda Expo è stata, in modo mirato, un grande imbroglio per alimentare appetti noti. E’ stato previsto e preannunciato e così è stato. Eleggere Sala è il coronamento del successo politico di questa operazione obbrobriosa, con buona pace di quanti l’hanno apprezzata esteticamente. Questa vicenda è assai più grave di quanto non si metta in evidenza, neppure da Travaglio e dal suo fatto quotidiano, che sull’argomento, per altro, ha condotto una battaglia meritoria, sin dall’inizio. Expo, è la prova provata delle connessioni tra politica e malaffare, intendendo per politica tutto il centro destra e tutto il centrosinistra. Questa operazione ha coinvolto infatti tutte, ma proprio tutte le forze politiche del paese. Salvini, che vuol rifare la verginità alla lega, non ne parla molto. La realizzazione dell’Expo ha visto il coinvolgimento di giunte milanesi, da Moratti a Pisapia e governi nazionali da Berlusconi a Renzi e tutti i governi intermedi. In un paese con la stampa libera si sarebbe potuto percepire l’enormità di questo scandalo ma così non è e bisogna farsene una ragione.

lunedì 5 dicembre 2016

Il referendum; il giorno dopo



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E’ andata bene, molto meglio di quanto mi aspettassi. Renzi ha messo in campo una potenza di fuoco propagandistica impressionate, soprattutto nell’uso della televisione e, ovviamente di tutti i canali clientelari, basta ricordare l’episodio di De Luca e delle sue fritture di pesce. Tuttavia non è bastato. La crisi economica, come spesso accade nella storia “apre gli occhi”. La stessa crisi che Renzi voleva cavalcare gli si è ritorta contro perché non è stato credibile come attore positivo di questa stessa crisi. Il No è l’esito in gran parte spontaneo, per cui ritengo fuori luogo l’appropriazione da parte di chicchessia. Le dichiarazioni di Salvini subito dopo i primissimi exit-pool mi hanno fatto raccapricciare, perché tendevano implicitamente ad intestarsi la vittoria. Per fortuna di altro tenore le dichiarazioni dei pentastellati.  Ha vinto la Costituzione e le dichiarazioni della casta che la voleva sostanzialmente abolire non sono andate nella direzione corretta di presa d’atto del risultato. Alcuni commentatori si sono spinti a ragionamenti demenziali, come quello per cui i 13 milioni 500.000 scarsi che hanno votato pe il Si costituiscono il partito personale di Renzi, che sarebbe per ciò il più forte partito politico esistente, perché quei voti sarebbero pari pari, spendibili anche in elezioni politiche. Ho sentito queste sciocchezze proporsi seriamente durante una trasmissione del pomeriggio di oggi su La7, e Sgarbi era tra i sostenitori di questa “teoria”. Questi ragionamenti tendono in realtà a negare l’evidenza, e che Renzi ha perso e non ha vinto. Inoltre il voto multiplo, del tipo “prendi due e paghi uno” non esiste in natura e il tentativo di introdurlo per l’elezione dei senatori è stato clamorosamente sconfitto. Il voto vale per le circostanze, nelle modalità e finalità per cui è stato espresso, e i tentativi di farlo valere anche per altro, non nuovi per la verità, sono sempre falliti. Ricordo a mia memoria, che qualcuno nel vecchio Pci, fece la stessa riflessione a proposito dei voti espressi nel referendum sulla scala mobile, perso dalla C.G.I.L. e col sostegno del solo PCI. I voti presi per il ripristino della scala mobile in busta paga furono accarezzati come voti politici per il PCI e il loro numero sarebbe stato sufficiente fare del PCI medesimo il sicuro vincitore delle elezioni politiche successive. Ovviamente non andò così. Insomma le valutazioni di una esito referendario, sotto il profilo numerico sono un tutt’uno, e dovrebbero saperlo anche le pietre. L’analisi del voto dei 13 milioni e mezzo del Si deve essere contestuale ai 20 milioni scarsi del NO altrimenti non se ne esce, perché sono voti strettamente intrecciati tra loro, gli uni non esistono senza gli altri, e non ne possiamo fare ciò che ne volgiamo. Renzi ha perso, e non c’è modo di trasformare questa sconfitta in qualcosa che apre prospettive politiche ottimistiche per lui. I “voti di Renzi” semplicemente non esistono, e se ci sono sono comunque indistinguibili da quelli del Pd. Bisognerebbe, per valutare questo dato, che uscisse dal Pd e che presentasse una sua lista alle elezioni politiche, ma non lo farà, non ci pensa neppure e non è un caso. I dati sull’affluenza sono eccezionali per i tempi che corrono, e egli stesso ha contribuito a farne l’avvenimento importante che poi è stato, bene ribadirlo prima che questo referendum passi nel dimenticatoio, perché questa Costituzione ha vinto una battaglia importante, ma la guerra continua, e il pericolo non passato. L’antidoto ai veleni con cui vogliono eliminarla sono la partecipazione costante dei cittadini e delle “persone normali” quelle che vivono senza usufruire di privilegi di sorta, e ritocchi alla medesima per aggiornarla e preservarne i principi generali. Penso che innanzi tutto a un sistema elettorale che preveda il ritorno ad un proporzionale puro, sancito da una legge costituzionale per evitare che i gravissimi scompensi registrato negli ultimi decenni con un sistema maggioritario che ha visto l’Italia governata da un Berlusconi soccorso dal suo stalliere Mangano e da personaggi tipo Dell’Utri e via discorrendo. E per evitare, in oltre che bulletti come Renzi cerchino di cambiare legge elettorale ogni volta che piove, non è possibile, perché in questo conferirebbe all’instabilità carattere distintivo alle istituzioni italiane rendendola con ciò stesso ineliminabile. Persino superfluo aggiungere poi che questa Carta va applicata sul serio, e senza consentire a modifiche di fatto, alcune mai sanzionate e praticamente insanzionabili, a partire dalla durata in carica del Presidente della Repubblica che dura in carica 7 anni e non a piacimento di qualcuno. Ritorno sulla vicenda Napolitano perché mi è venuto in mente un altro argomento che stronca, a mio parere, qualsiasi dubbio interpretativo sull’articolo della Carta che regola questo problema ed è il cd. “semestre bianco” ossia l’ultimo semestre del mandato di un Presidente della Repubblica  in cui non può sciogliere le camere, proprio perché non sia possibile ricattare le stesse in vista del conferimento di un nuovo mandato. Così come non deve essere possibile la cd. “decretazione” d’urgenza senza urgenza alcuna, fatta apposta per ridurre i poteri del parlamento. Insomma, come tentavo di argomentare su questo sito, l’assalto alla costituzione viene da lontano e non cesserà con questa pur importantissima battuta d’arresto.

mercoledì 23 novembre 2016

Il referendum. //NO


Il prossimo referendum del 4 dicembre costituisce effettivamente un momento cruciale nella vita politica di questo sventurato Paese. Do per scontato che le ragioni siano davvero tutte dalla parte del NO. Per convincersene basta far caso al dato di fatto incontrovertibile che la propaganda del Si ricorre frequentemente alle menzogne, o a divagazioni improntate a pragmatismo demenziale tipo “se non la si cambia ora non la si cambia più” e simili stupidaggini, oppure ai tagli delle spese ai “politici”, che è un fatto vero ma assolutamente marginale, e fattibile che lo si voglia senza toccare la costituzione. Renzi e i suoi ripetono incessantemente che i nuovi senatori saranno eletti, per non dire che il senato proposto non sarà elettivo. La necessità di cambiare poi fa parte, della più pura retorica futurista, tanto l’imperativo è cambiare poco importa come, per essere poi destinati ad un moto perpetuo, impossibile in ambito istituzionale.  Del resto anche il quesito referendario medesimo che è stato elaborato in funzione di una volontà estrema di ingannare gli elettori, ragion per cui è stato contestato sino in vario modo e in tutte le forme possibili. Non sto a riepilogare le ragioni del NO, abbondantemente e dettagliatamente spiegate da tutto il fronte che si oppone alla riforma. Rilevo che all’interno di questo fronte, il punto di debolezza, è proprio quello della minoranza del Pd che ha esaltato l ‘aspetto pur fondamentale della legge elettorale nota come “italicum” (ogni tanto si ricorre pure al latino invece che al solito inglese). E la pantomima di Cuperlo si consuma proprio in questo ambito.  Se non che la riforma costituzionale resta improponibile per moltissimi aspetti soprattutto per come è stato concepito il nuovo senato, e questo prescinde anche dal “combinato disposto”, che è sicuramente un dato di fatto incontrovertibile, perché, vigente l’Italicum il potere risulterebbe concentrato in modo inaccettabile nelle mani del Pd se vincesse le elezioni. Ma probabilmente la legge elettorale cambierà di nuovo proprio perché Renzi non è così sicuro di vincere da solo le prossime elezioni. Tuttavia anche senza l’Italicum, la riforma del senato, che è l’asse portante di tutta la riforma resta inaccettabile, perché gli effetti resterebbero disastrosi anche ipotizzato di maggioranze diverse. In un caso ci sarebbe una concentrazione di poteri eccessiva, nell’altro un potere davvero eccessivo alle opposizioni in caso di maggioranze diverse. Il nuovo senato avrebbe tutte le possibilità di mettere il bastone tra le ruote in modo pregnante senza nessuna possibilità istituzionale di composizione dei conflitti. In questo caso potrebbero sorgere conflitti infiniti, aggravati dal fatto che il senato non dà la fiducia, e quindi la sua maggioranza non ha responsabilità di governo. Immagino che se a presiedere i governi ci saranno personaggi come gli ultimi che si sono succeduti, e penso soprattutto a Berlusconi e a Renzi, gli “strappi” istituzionali sarebbero, come ora all’ordine del giorno.   Quindi, in questa ipotesi, si rivelerebbe un disastro in barba alla tanto sbandierata “semplificazione” tanto sbandierata. Il Paese cadrebbe nell’anarchia e nella più assoluta ingovernabilità, e, credo, sia questa l’aspettativa più attraente dal punto di vista di J.P.Morgan, la banca americana che sta gestendo l’operazione. Certo il famoso “complottismo” è stato bandito dai media, e tuttavia sono i complotti che governano il mondo, nonostante sui media questa “teoria” che è in realtà un dato di fatto, viene spesso ridicolizzata stupidamente sui media. Neppure il buon Travaglio si sottrae a questa prassi. Bisognerebbe spiegarsi allora, perché il sindaco di Firenze e non un altro ha avuto tutto il favore dei media sino a risultare, nella percezione delle persone comuni, l’effettivo vincitore di primarie anche le prime perse con Bersani, tanto da indurre lo stesso a comportarsi come se le avesse perse, e consentire ad altre primarie con regole modificate nella direzione voluta dal perdente.  Tuttavia l’aspetto che mi preme sottolineare è che la battaglia per il Si si avvale di una prassi consolidata che vede una crescente disapplicazione della attuale carta costituzionale, a partire dall’art. 1° che suona “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ora la prima parte, quella che vorrebbe l’Italia una repubblica fondata sul lavoro non è mai stata applicata. E non lo è stata in modo pacifico. Si sapeva sin dal primo momento che questa parte del primo art. era una mera petizione di principio che non avrebbe mai avuto un seguito nella realtà. Di fatto l’Italia è sempre stata una Repubblica organizzata in modo funzionale al grande capitale e agli interessi Usa. Così era stato deciso a Yalta, e tuttavia è proprio questo articolo che dà fastidio a J.P. Morgan, almeno secondo un documento della stessa banca che circola in rete, e citata anche in Tv senza smentite di sorta. Eppure, in teoria, questa prima parte del primo articolo non si è toccato. La seconda parte del primo art. invece non ha più trovato applicazione da quanto si è introdotto il sistema maggioritario. La sentenza della Corte Costituzionale che sancisce questo è arrivata tardi in modo assolutamente colpevole. Si sono susseguite diverse legislature su base maggioritaria, che consente la elezione di un certo numero di parlamentari non eletti dal popolo sovrano. Su questo strappo si è consumata l’intera vicenda berlusconiana, che in un sistema proporzionale, verosimilmente non avrebbe mai potuto aver luogo. Quindi l’assalto alla costituzione non è una prerogativa di Renzi, anche se la sua megalomania da strapazzo lo porta a datare ogni vicenda “positiva” della nostra vita politica dalla sua apparizione sulla scena politica. Apparizione legata agli ambienti medesimi che hanno favorito Berlusconi, e la continuità politica tra loro è perfino evidenziata dallo stesso, anche nel frangente della campagna referendaria, in cui Berlusconi dice a parole di votare NO, ma schiera apertamente le sue reti per il Si. E’ una concessione che deve pur fare al suo seguito che tutto si aspettava tranne che la sua eredità sarebbe finita a un personaggio assolutamente nuovo, estratto dal cilindro di quelle congreghe segrete o meno che governano di fatto l’Italia da molto tempo. E’ inutile che ripeta ciò che ho argomentato ripetutamente su questo blog. E’ possibile, anzi per me evidente, che i piani veri, perfino al di là dell’articolato, sono quelli di smembrare l’Italia, così come è stata smembrata a suo tempo la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e via dicendo. Questi processi si consumano a tappe se ci si fa caso. Ragion per cui è ingenuo illudersi che la vicenda si concluda con questo referendum, come si vuol far credere. Comunque a proposito di smembramento dell’Italia una traccia vi è già in questa riforma. Ne ha parlato per primo Michele Ainis ne “La Repubblica” di domenica 23 ottobre 2016 in un art. dal titolo 5 Super Stati, le Regioni speciali che voglio riportare integralmente. “C’è una norma, nascosta fra le disposizioni transitorie della riforma Boschi, che è più potente d’un cannone. Perché inventa la suprema fonte del diritto, superiore alla Costituzione stessa. Perché le norme transitorie transitano, mentre questa si proietta sull’eternità. Perché infine, grazie ai suoi stessi incantesimi, la riforma dello Stato genera cinque superStati: le Regioni speciali. Per raccontare questa storia, dobbiamo partire per un triplo viaggio nel tempo. Il primo fino al dopoguerra, quando per un complesso di motivazioni politiche, etniche, geografiche, viene concessa una particolare autonomia a Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Trentino (il Friuli s’aggiunse nel 1963). Il secondo viaggio approda nel 2001, l’anno della riforma federalista varata sotto il governo Amato: una sbornia di competenze per le 15 regioni ordinarie, che a quel punto passano le cinque sorelle maggiori, le fanno retrocedere in autorità e poteri. Tanto che, per evitare il paradosso di Regioni speciali che in realtà diventano subnormali, la legge costituzionale numero 3 del 2001 introduce la “clausola di maggior favore”, stabilendo che il nuovo Titolo V della Costituzione di s’applichi anche a loro, nelle parti in cui sia più vantaggioso rispetto agli statuti speciali. Il terzo viaggio a ritroso è altresì il più breve. Un anno fa, ottobre 2015: l’oscillazione del pendolo, che di volta in volta converte gli italiani da giustizialisti a garantisti, da proporzionalisti a maggioritari, da federalisti a centralisti, stavolta gira contro gli enti regionali. E infatti in Senato si sta perfezionando la riforma che taglierà le unghie alle Regioni. Mica tutte, però: le autonomie speciali rimangono fuori dalla giostra. Perché mai? Semplice: perché dispongono ad un fuoco di sbarramento che può fucilare la riforma. 19 fucili, quanti sono attualmente i senatori (perlopiù eletti in Val d’Aosta e Sud Tirolo) del gruppo per le autonomie. Siccome però le garanzie non sono mai abbastanza, siccome oggi va bene ma “di doman non v’è certezza”, gli autonomisti pretendono (e ottengono) la fideiussione perpetua. Il 9 ottobre 2015 il Senato approva l’emendamento 39.700, primo firmatario Karl Zeller, ovvero il presidente del Gruppo per le autonomie. Da qui il comma 13 dall’articolo 39, da qui la regola che vieta per tutti i secoli a venire di sforbiciare le competenze delle Regioni speciali, a meno che non siano loro stesse a decretarlo. Cambia infatti il procedimento di formazione degli statuti, dove per l’appunto s’ elencano tali competenze: nel caso delle cinque regioni ad autonomia differenziata, servirà una legge costituzionale adottata dallo Stato “sulla base di intese con le medesime Regioni”. Diciamolo: è la novità più innovativa della nuova novella. Non tanto per l’uso dello strumento pattizio, quanto per il suo grado d’efficacia, per il condizionamento che poi ne deriva. Difatti la costituzione in vigore ne contempla già un paio d’applicazioni: nell’articolo 8 (intese fra lo Stato e culti acattolici) e nell’articolo 116 (intese fra Stato e regioni). In entrambe le ipotesi, però, le intese precedono una legge ordinaria, non una legge costituzionale. Dunque lo Stato può sempre disattenderle, può insomma decidere da solo, purché intervenga con legge di revisione costituzionale, modificando l’articolo 8 articolo 116. Ma in questo caso no, non è possibile. Il comma 13 detta una regola procedurale, né più né meno dell’articolo 138 della Costituzione, di cui è figlia la riforma Boschi. Se domani si correggesse lo statuto del Trentino senza rispettare il comma 13 sarebbe come approvare una riforma Boschi bis senza rispettare l’articolo 138. Vabbè, è dura da capire. Ma è ancora più dura da spiegare, ed è durissima da concepire. Anche perché la concezione del concetto è una e trina, come Dio. Primo: aumenta la forbice tra Regioni ordinarie e speciali, benché in partenza è l’idea fosse quella di verificarle. Secondo: di statuti speciali sono più garantiti dalla costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più (l’intesa), con un procedimento ultra rafforzato. Terzo: l’autonomia delle Regioni speciali non verrà mai più ridimensionata, a meno che esse stesse decidano di fare harakiri. Risultato: ci sbarazziamo del Senato, per liberarci dei suoi poteri di veto. E lo sostituiamo con cinque veto players , le Regio- Stato . Evviva. Michele Ainis non appartiene alla mia cultura dietrologica, eppure da buon tecnico ha evidenziato questo problema che i più considerano secondario ma che secondario, a parere mio non è perché è da ingenui pensare che le contraddizioni di questo pessimo testo di riforma costituzionale sia attribuibile alla cattiva penna dei suoi estensori apparenti, come se a Renzi, alla Boschi, o a Verdini qualcuno lascerebbe scrivere qualcosa di più di un post o un twitter o una slide. Il sistema maggioritario ha portato il peggio della classe politica in parlamento ed ora raccogliamo i risultati.  Abbarbicati al loro potere senza sufficiente e legittimo consenso si sentono in diritto di stravolgere la costituzione per conto terzi. Sono davvero spaventato da ciò che può succede per un altro effetto combinato. Questa riforma Sarebbe disastrosa anche perché contempla la possibilità di un senato fuori dal controllo della maggioranza risultante dalle elezioni politiche vere e proprie e della ingessatura del potere delle regioni a statuto speciale. Francamente temo che davvero possa vincere il Si, nonostante tutto, e mi fa specie leggere di personalità di spessore che si pronunciano per questa riforma. Non c’è nessuna buonafede possibile, e la crisi che attraversiamo, il lungo tempo in cui l’approfondimento e lo spessore culturale sono stati aboliti sia dal nostro sistema formativo che mediatico possono portare una maggioranza di cittadini a votare per questa “riforma”. E’ incredibile ma può succedere, comunque voto NO