martedì 12 dicembre 2017

La nuova Yalta di Marco Damilano




Marco Damilano ha scritto un articolo tanto interessante e stimolante, quanto superficiale irritante allo stesso tempo. Insieme alle giuste considerazioni sul declino italiano, ne attribuisce le cause alla pochezza del ceto dirigente ma non comprende che tale pochezza non è ascrivibile al caso ma alle condizioni necessarie imposte da chi effettivamente detiene il potere in Italia e lo gestisce suo piacimento. Solo a mo’ di esempio cito “La Repubblica” di venerdì 8 dicembre 2017, dove c’è un art. a pag.6 di Salvo Palazzolo richiamato in prima pagina: [L’appunto segreto di Falcone sulle rivelazioni di Mannoia: “Berlusconi paga i mafiosi”] Ora va detto che sui rapporti tra Berlusconi e la mafia, tra Berlusconi e il malaffare visto in tutte le sue sfaccettature, ci sono pagine e pagine di giornali, tanta letteratura e archivi dei tribunali di diverse città italiane. Nessuno però si è posto il problema di fondo, nessuno si chiede come mai un personaggio di tal fatta sia stato più volte presidente del consiglio e ancora oggi, pur sottoposto ad una condanna, l’unica subita in via definitiva, ed anche questo aspetto è da indagarsi adeguatamente, per frode fiscale, sia un personaggio che svolge un ruolo centrale nella vita politica italiana. Ma indagare a fondo su queste questioni non si addice ad un giornalista alla moda come Damilano. Egli è condizionato da un bieco e antico anticomunismo, secondo il quale la situazione dell’Italia nell’ultimo dopoguerra era paragonabile a quella tedesca. Ebbene sì, udite udite, anche l’Italia aveva un muro come quello di Berlino. Era un muro ideale perché divideva idealmente il Paese due. Tale divisione era assicurata dalla semplice esistenza del Pci, ragion per cui al crollo del muro vero “anche noi siamo stati liberati e unificati”. Marco Damilano è del ’68, e forse non ha respirato l’aria politica della prima repubblica, ma almeno si ricercasse dei dati economici e sociologici per accompagnare questa tesi ardita. Se si impegnasse un po’ di più avrebbe scoperto che è avvenuto esattamente il contrario. Avevamo una economia di gran lunga migliore, migliori condizioni di vita generale, e anche sotto il profilo culturale eravamo sicuramente migliori. Infatti, tanto per dirne una, l’Espresso dell’epoca, giornale che Damilano dirige era un oggetto da collezione. C’era chi lo collezionava, ed io tra quelli. Non credo che oggi qualcuno si prende la briga di collezionarlo, un po’ perché la tecnologia ha reso superflua questo tipo di pratica, un po’ perché ormai scrive sciocchezze, per cui oggi l’Espresso te lo tirano addosso la domenica insieme a “La Repubblica”.  In definitiva, Damilano, con l’aria di chi parla di cose serie, in realtà dice banalità perché occulta il problema di fondo della nostra Nazione che la affligge sin dalla sua nascita, ossia la assoluta subalternità del suo ceto dirigente ai grandi interessi e alle grandi potenze del mondo. Queste cambiano, ma non cambia la situazione economica e politica italiana e la sua collocazione nel contesto internazionale. Siamo stati subalterni alla Gran Bretagna sino alla prima guerra mondiale nel cui interesse l’abbiamo combattuta; poi Mussolini ha cercato un posto al sole e sappiamo tutti com’è finita, poi nel secondo dopoguerra siamo stati subalterni agli Usa, ed ora, con tutta evidenza, gli Usa sono in grande crisi, e di questa crisi epocale e irreversibile è testimonianza la presidenza Trump. Damilano poi ignora totalmente la questione dell’Europa e dei suoi vincoli di bilancio che hanno completamente disarticolato lo stato italiano, e si chiede come mai non ci sediamo tra i “vincitori” a spartirci il mondo. Ebbene, caro Damilano, non è stato un caso che non ci fossimo alla vecchia Yalta, né sono cambiate le condizioni per esserci nella nuova. E poi c’è un altro problema di cui Damilano non si rende conto. Non c’è nessuna nuova Yalta, anche perché la terza guerra mondiale non è ancora finita, anzi è lungi dall’esserlo e i nuovi assetti sono lungi dall’essere definitivi e accettabili da tutti. Non ci sono accordi spartitori pacifici ed accettati, posto che lo furono quelli della vecchia Yalta, che ressero, cosa che nessuno dice, perché l’Urss fu l’unica, sino alla invasione dell’Afghanistan a rispettarla. Questa, forse, è storia.

giovedì 11 maggio 2017

Le elezioni presidenziali in Francia



L’ampio spazio dedicato dai nostri media alle elezioni presidenziali francesi ha suscitato tanta emotività e partecipazione dalle nostre parti. Del resto è questo lo scopo di tutte le operazioni condotte con strumenti della comunicazione di massa. Si è voluto far credere che in palio ci fosse la democrazia, rappresentata dal vincitore e neopresidente francese Emmanuel Macron, contro il fascismo, del resto dichiarato, di Marine Le Pen. Ovviamente per tutti i democratici la scelta era obbligata, e così anche la sinistra italiana, esattamente quelle che amo definire “la sinistra che non c’è” ha fatto il tifo per Macron e poi ha esultato per la sua vittoria. In verità alcuni commentatori e tra gli altri Giannini su “La Repubblica e Travaglio su “Il Fatto Quotidiano” hanno precisato che il sentimento di trasposizione che molti hanno provato, e che molti politici hanno strumentalizzato, Renzi per primo, era infondato, per la semplicissima ragione che noi siamo italiani, cosa di cui ci scordiamo tante volte, mentre tantissime altre volte il dato ci viene ricordato assai strumentalmente e per motivi ignobili. Ora che per l’Italia sia un affare la vittoria di Macron è cosa da verificare, mentre la eventuale fuoriuscita della Francia dalla Unione Europea, propagandata da Marine Le Pen, avrebbe avuto per noi ripercussioni tutte da discutere e verificare. Insomma Macron rappresenta ed ha esplicitamente rappresentato gli interessi dell’Europa a trazione tedesca. La propaganda dei nostri media ci vieta di prendere coscienza in modo diffuso, che questa Europa ha rappresentato un disastro, che in altri post, ho, credo a ragion veduta, paragonato agli esiti di una guerra, continuando a sostenere che di questo si è trattato, degli esiti più autentici e definitivi del secondo conflitto mondiale. Di modo che chi ha perso la guerra sul fronte militare, l’ha poi ampiamente rivinta sul piano politico ed economico sia pure a distanza di tempo. Infatti la Germania si è riunificata, ha imposto con l’unione europea avallata dagli Usa la sua moneta come moneta dell’Europa, cambiandole semplicemente il nome, e, col meccanismo assurdo e demenziale accettabile solo da un ceto politico corrotto, colluso e abominevole, ha lascito il cd “debito pubblico” che vale solo per gli altri ma non per la Germania medesima, a marcare ancora differenze di valore tra gli euro delle diverse nazioni. Di modo che la moneta unica è semplicemente una truffa, perché essa è una merce tra le altre e per gli italiani questa merce è molto più cara che per la Germania con ciò vietando qualsiasi possibilità di ripresa autentica per noi. Ebbene Macron è il campione di questa politica e la “sinistra” italiana ha esultato per la sua vittoria. Insomma il busillis consiste nel fatto di ritenere di essere ancora nel secolo scorso, in cui era ipotizzabile (anche se il dato non è vero sino in fondo) che ci fossero partiti autentici portatori di valori che potevano anche essere contrapposti tra loro. Oggi, e da tempo non è più così. I partiti politici di un tempo non esistono più, e con queste elezioni in Francia, il dato viene ampliato e reso un fenomeno ancora più evidente. Macron ha dissolto il partito socialista francese, mentre la Le Pen ha assorbito quello repubblicano; a sinistra è rimasta una formazione di testimonianza “La France insoumise” di Jean-Luc Melenchon, e anche questa formazione, per fortuna, ha superato in voti il partito socialista. Tutto ciò con la contrapposizione fascismo- antifascismo non centra assolutamente nulla, tant’è che lo stesso Melenchon, non a caso, ha avuto problemi ad accedere a questo schema. Infatti non ha dato indicazioni di voto per Macron. Costui è palesemente un uomo designato dalla finanza, e a costei la cultura dell’antifascismo le è assolutamente estranea, anzi è la protagonista di una acquisizione diretta del potere politico sottraendolo a quei ceti che di mediazione politica hanno fatto la loro ragion d’essere. In Italia il protagonista di questa operazione dovrebbe essere stato Renzi, ma costui è uno stupido, ignorante e incompetente. Ha scalato, per paura di non farcela da solo, un Pd in profonda crisi, per liquidarlo poi. Ma non ce l’ha fatta. Perso il referendum che doveva consacrarlo leader vita natural durante, ha rimesso mano, i modo davvero bieco, alle primarie del Pd, col risultato di prolungare la vita di questo organismo ridotto a grumo di mero potere, senza nessunissima progettualità politica che non sia quella di inseguire le linee dettate da Salvini.  Macron, al contrario, si è dimesso da ministro del governo Hollande per candidarsi con un movimento “nuovo” certo con l’appoggio dello stesso Hollande, ma ora è leader svincolato, forse fin troppo, da qualsiasi partito tradizionale. Questo tipo di operazione doveva essere la stessa che ha portato Renzi al potere in Italia, ma Macron, dimettendosi da ministro e fondando un suo movimento ha avuto un coraggio impensabile in Renzi, che mai si sarebbe dimesso a rischio di sparire dalla scena che conta. Così come è introvabile in Renzi la preparazione e gli studi che invece ha coltivato Macron.  Tutta l’Europa, si guardi soprattutto all’est, è attraversata da movimenti che profondamente impregnati di valori nazisti, a volte richiamati apertamente. La politica nuova va in questa direzione qualunque sia il volto che presenta caso per caso. La sinistra, quella italiana i particolare, ha perso da tempo le ragioni del suo esistere, (ma su questo mi ripropongo di tornarci sopra in un prossimo post) per cui quel che sopravvive di essa è un residuo del passato, keynesiana in economia, (Keynes, a proposito, è stato messo al bando in Turchia, a testimonianza neppure primaria dello scempio di cultura e democrazia che sta avvenendo in quel Paese) incapace di prendere posizione ferma e coerente su tutti i problemi di grande attualità, dalla corruzione all’euro. Penoso che il suo proiettarsi sulla situazione francese per tifare Macron.

martedì 2 maggio 2017

Trump, Renzi, le primarie e la democrazia



Premetto che in passato sono andato a votare anch’io alle primarie, ma per motivi del tutto contingenti, avendo voglia di esprimere qualche preferenza per i candidati più a "sinistra" di quelli ufficiali del Pd. Comunque una riflessione più approfondita sullo strumento la voglio fare o ripetere, visto che di sicuro ho già trattato l’argomento. Le primarie sono uno strumento consolidato negli Usa, e, secondo la vulgata che se ne fa da queste parti, sono un segno di democrazia. Non mi pare che siano molti in giro a riflettere su un aspetto per me evidente ed essenziale, che gli Usa non sono affatto un buon esempio di democrazia sotto il profilo dei sistemi elettorali, visto che di questo trattiamo, tralasciano discorsi più ampi sulla democrazia. Il voto politico in Usa è farraginoso, disincentivato e disincentivante ed è organizzato con un meccanismo in grado di distorcere la “volontà popolare”. Le ultime elezioni presidenziali negli Usa ne sono un esempio assai significativo. Se si fossero contati i voti sarebbe risultata vincitrice la Clinton, invece di Trump, ma i voti dei cittadini hanno una valenza relativa, perché il Presidente degli Stati Uniti d’America viene scelto con una elezione di secondo grado, quasi come il Doge di Venezia dei secoli andati. Ora nessuno riflette sulla contraddizione che a me pare evidente, tra un valore importante come la democrazia e la pratica che ne consegue. Insomma gli Usa, oltre a non poter essere un modello di democrazia sulla base dei miei valori, non lo sono comunque la si pensi. Ora la elezione di Trump, proprio questo ha significato, come ha giustamente osservato qualche commentatore nell’immediatezza del voto: la crisi del modello planetario a Stelle e Strisce. A maggior ragione verrebbe da chiedersi in quale sistema di valore si inseriscono le primarie americane. Posto che esse sia uno strumento di “apertura” verso il basso, occorrerebbe chiedersi come mai gli americani si siano dotati di un sistema “aperto” nelle competizioni interne ai partiti, e chiuso e farraginoso in quelle di maggiore portata istituzionale. Le risposte potrebbero essere molteplici, ma qui, per brevità, mi atterrò a quella che a me pare una ovvietà, a prescindere dagli orientamenti politici di riferimento, ossia che gli Usa sono una cosa e l’Italia è un’altra. Sono storie, condizioni geografiche ed socio-economiche talmente diverse da far pensare che solo gli stolti possano concepire apparentamenti e similitudini tra sistemi istituzionali. Infatti sono convintissimo che il nostro ceto politico sia fondamentalmente corrotto e incompetente. Allora, ammesso che le primarie americane possono anche avere una ragion d’essere in quella particolare situazione, non si capisce a cosa servono nel sistema italiano. Da noi, tanto per dirne una, non c’è un sistema elettorale consolidato, cosa che negli Usa c’è, che piaccia o meno, e si naviga a vista, volta per volta. Questo è un sintomo evidente di una crisi politica di “sistema” che è profonda e grave, anche se nessun osservatore, per quel che mi riesce di constatare, la definisce tale. Intanto va notato che, come tutte le cose riuscite male, le primarie italiane non sono di sistema, infatti solo il Pd le adotta. Ma il Pd è un partito che spinge la propria insipienza fino a replicare anche nel nome un partito americano, che ha tutt’altra tradizione. Neppure la differenza tra destra e sinistra in America ha una storia minimamente rapportabile a quella italiana; del resto è proprio questo il nocciolo duro e violento della nostra “modernità” o del postmoderno come dir si voglia: annullare la nostra storia, portare il nostro vissuto a galleggiare con quello altrui grazie alla straordinaria tecnologia dei media. In questo contesto le primarie italiane, dopo un periodo di “collaudo” si stanno consolidando per uno strumento che nulla ha a che fare con la democrazia. Una volta le si sarebbero definite uno strumento sciovinista, in cui gli elettori vengono chiamati a suggellare ciò che è già deciso altrove. A meno che qualcuno non voglia sostenere che le recenti primarie vinte da Renzi siano state primarie reali, in cui i concorrenti abbiano avuto le stesse possibilità di vincere. Della partecipazione di Orlando non mi stupisco, ma, confesso, attribuivo ad Emiliano una capacità di guardare lontano che vedo smentita da questa circostanza. Insomma anche lui, che stava con un piede fuori dal Pd, alla fine ha optato nella modalità di quel vecchio detto barese, di solito pronunciato in dialetto, che in vero è riferito ai soldi e non ad altro, che si preferiscono così: “pochi, maledetti e subito”. Particolare gravità ulteriore scontano, sempre a parer mio, queste ultime primarie. Esse sono state concepite come strumento per far dimenticare agli elettori del Pd, che Renzi ha perso il referendum del 4 dicembre sulla riforma istituzionale da lui voluta. Insomma, a differenza che negli Usa, le primarie del Pd non sono il prologo a elezioni politiche vere e programmate, portatrici di un cambiamento di personalità al vertice insito nelle regole, ma sono servite a consolidare il “vecchio” segretario. E pensare che qualcuno ha sostenuto che partecipare a tali primarie, era un fatto di d e m o c r a z i a.