Marco
Damilano ha scritto un articolo tanto interessante e stimolante, quanto
superficiale irritante allo stesso tempo. Insieme alle giuste considerazioni
sul declino italiano, ne attribuisce le cause alla pochezza del ceto dirigente
ma non comprende che tale pochezza non è ascrivibile al caso ma alle condizioni
necessarie imposte da chi effettivamente detiene il potere in Italia e lo
gestisce suo piacimento. Solo a mo’ di esempio cito “La Repubblica” di venerdì
8 dicembre 2017, dove c’è un art. a pag.6 di Salvo Palazzolo richiamato in
prima pagina: [L’appunto segreto di Falcone sulle rivelazioni di Mannoia: “Berlusconi
paga i mafiosi”] Ora va detto che sui rapporti tra Berlusconi e la
mafia, tra Berlusconi e il malaffare visto in tutte le sue sfaccettature, ci
sono pagine e pagine di giornali, tanta letteratura e archivi dei tribunali di
diverse città italiane. Nessuno però si è posto il problema di fondo, nessuno
si chiede come mai un personaggio di tal fatta sia stato più volte presidente del
consiglio e ancora oggi, pur sottoposto ad una condanna, l’unica subita in via
definitiva, ed anche questo aspetto è da indagarsi adeguatamente, per frode
fiscale, sia un personaggio che svolge un ruolo centrale nella vita politica italiana.
Ma indagare a fondo su queste questioni non si addice ad un giornalista alla
moda come Damilano. Egli è condizionato da un bieco e antico anticomunismo,
secondo il quale la situazione dell’Italia nell’ultimo dopoguerra era
paragonabile a quella tedesca. Ebbene sì, udite udite, anche l’Italia aveva un
muro come quello di Berlino. Era un muro ideale perché divideva idealmente il
Paese due. Tale divisione era assicurata dalla semplice esistenza del Pci,
ragion per cui al crollo del muro vero “anche noi siamo stati liberati e unificati”. Marco
Damilano è del ’68, e forse non ha respirato l’aria politica della prima
repubblica, ma almeno si ricercasse dei dati economici e sociologici per
accompagnare questa tesi ardita. Se si impegnasse un po’ di più avrebbe
scoperto che è avvenuto esattamente il contrario. Avevamo una economia di gran
lunga migliore, migliori condizioni di vita generale, e anche sotto il profilo
culturale eravamo sicuramente migliori. Infatti, tanto per dirne una, l’Espresso
dell’epoca, giornale che Damilano dirige era un oggetto da collezione. C’era
chi lo collezionava, ed io tra quelli. Non credo che oggi qualcuno si prende la
briga di collezionarlo, un po’ perché la tecnologia ha reso superflua questo
tipo di pratica, un po’ perché ormai scrive sciocchezze, per cui oggi
l’Espresso te lo tirano addosso la domenica insieme a “La Repubblica”. In definitiva, Damilano, con l’aria di chi
parla di cose serie, in realtà dice banalità perché occulta il problema di
fondo della nostra Nazione che la affligge sin dalla sua nascita, ossia la
assoluta subalternità del suo ceto dirigente ai grandi interessi e alle grandi
potenze del mondo. Queste cambiano, ma non cambia la situazione economica e
politica italiana e la sua collocazione nel contesto internazionale. Siamo
stati subalterni alla Gran Bretagna sino alla prima guerra mondiale nel cui
interesse l’abbiamo combattuta; poi Mussolini ha cercato un posto al sole e
sappiamo tutti com’è finita, poi nel secondo dopoguerra siamo stati subalterni
agli Usa, ed ora, con tutta evidenza, gli Usa sono in grande crisi, e di questa
crisi epocale e irreversibile è testimonianza la presidenza Trump. Damilano poi
ignora totalmente la questione dell’Europa e dei suoi vincoli di bilancio che
hanno completamente disarticolato lo stato italiano, e si chiede come mai non
ci sediamo tra i “vincitori” a spartirci il mondo. Ebbene, caro Damilano, non è
stato un caso che non ci fossimo alla vecchia Yalta, né sono cambiate le condizioni
per esserci nella nuova. E poi c’è un
altro problema di cui Damilano non si rende conto. Non c’è nessuna nuova Yalta,
anche perché la terza guerra mondiale non è ancora finita, anzi è lungi
dall’esserlo e i nuovi assetti sono lungi dall’essere definitivi e accettabili
da tutti. Non ci sono accordi spartitori pacifici ed accettati, posto che lo
furono quelli della vecchia Yalta, che ressero, cosa che nessuno dice, perché
l’Urss fu l’unica, sino alla invasione dell’Afghanistan a rispettarla. Questa,
forse, è storia.
martedì 12 dicembre 2017
giovedì 11 maggio 2017
Le elezioni presidenziali in Francia
L’ampio
spazio dedicato dai nostri media alle elezioni presidenziali francesi ha
suscitato tanta emotività e partecipazione dalle nostre parti. Del resto è
questo lo scopo di tutte le operazioni condotte con strumenti della
comunicazione di massa. Si è voluto far credere che in palio ci fosse la
democrazia, rappresentata dal vincitore e neopresidente francese Emmanuel
Macron, contro il fascismo, del resto dichiarato, di Marine Le Pen. Ovviamente per
tutti i democratici la scelta era obbligata, e così anche la sinistra italiana,
esattamente quelle che amo definire “la sinistra che non c’è” ha fatto il tifo
per Macron e poi ha esultato per la sua vittoria. In verità alcuni commentatori
e tra gli altri Giannini su “La Repubblica e Travaglio su “Il Fatto Quotidiano”
hanno precisato che il sentimento di trasposizione che molti hanno provato, e
che molti politici hanno strumentalizzato, Renzi per primo, era infondato, per
la semplicissima ragione che noi siamo italiani, cosa di cui ci scordiamo tante
volte, mentre tantissime altre volte il dato ci viene ricordato assai
strumentalmente e per motivi ignobili. Ora che per l’Italia sia un affare la
vittoria di Macron è cosa da verificare, mentre la eventuale fuoriuscita della
Francia dalla Unione Europea, propagandata da Marine Le Pen, avrebbe avuto per
noi ripercussioni tutte da discutere e verificare. Insomma Macron rappresenta
ed ha esplicitamente rappresentato gli interessi dell’Europa a trazione
tedesca. La propaganda dei nostri media ci vieta di prendere coscienza in modo
diffuso, che questa Europa ha rappresentato un disastro, che in altri post, ho,
credo a ragion veduta, paragonato agli esiti di una guerra, continuando a
sostenere che di questo si è trattato, degli esiti più autentici e definitivi
del secondo conflitto mondiale. Di modo che chi ha perso la guerra sul fronte
militare, l’ha poi ampiamente rivinta sul piano politico ed economico sia pure
a distanza di tempo. Infatti la Germania si è riunificata, ha imposto con
l’unione europea avallata dagli Usa la sua moneta come moneta dell’Europa,
cambiandole semplicemente il nome, e, col meccanismo assurdo e demenziale
accettabile solo da un ceto politico corrotto, colluso e abominevole, ha
lascito il cd “debito pubblico” che vale solo per gli altri ma non per la
Germania medesima, a marcare ancora differenze di valore tra gli euro delle
diverse nazioni. Di modo che la moneta unica è semplicemente una truffa, perché
essa è una merce tra le altre e per gli italiani questa merce è molto più cara
che per la Germania con ciò vietando qualsiasi possibilità di ripresa autentica
per noi. Ebbene Macron è il campione di questa politica e la “sinistra”
italiana ha esultato per la sua vittoria. Insomma il busillis consiste nel
fatto di ritenere di essere ancora nel secolo scorso, in cui era ipotizzabile
(anche se il dato non è vero sino in fondo) che ci fossero partiti autentici
portatori di valori che potevano anche essere contrapposti tra loro. Oggi, e da
tempo non è più così. I partiti politici di un tempo non esistono più, e con
queste elezioni in Francia, il dato viene ampliato e reso un fenomeno ancora
più evidente. Macron ha dissolto il partito socialista francese, mentre la Le
Pen ha assorbito quello repubblicano; a sinistra è rimasta una formazione di
testimonianza “La France insoumise” di Jean-Luc Melenchon, e anche questa
formazione, per fortuna, ha superato in voti il partito socialista. Tutto ciò
con la contrapposizione fascismo- antifascismo non centra assolutamente nulla,
tant’è che lo stesso Melenchon, non a caso, ha avuto problemi ad accedere a
questo schema. Infatti non ha dato indicazioni di voto per Macron. Costui è
palesemente un uomo designato dalla finanza, e a costei la cultura
dell’antifascismo le è assolutamente estranea, anzi è la protagonista di una acquisizione
diretta del potere politico sottraendolo a quei ceti che di mediazione politica
hanno fatto la loro ragion d’essere. In Italia il protagonista di questa
operazione dovrebbe essere stato Renzi, ma costui è uno stupido, ignorante e
incompetente. Ha scalato, per paura di non farcela da solo, un Pd in profonda
crisi, per liquidarlo poi. Ma non ce l’ha fatta. Perso il referendum che doveva
consacrarlo leader vita natural durante, ha rimesso mano, i modo davvero bieco,
alle primarie del Pd, col risultato di prolungare la vita di questo organismo
ridotto a grumo di mero potere, senza nessunissima progettualità politica che
non sia quella di inseguire le linee dettate da Salvini. Macron, al contrario, si è dimesso da ministro
del governo Hollande per candidarsi con un movimento “nuovo” certo con
l’appoggio dello stesso Hollande, ma ora è leader svincolato, forse fin troppo,
da qualsiasi partito tradizionale. Questo tipo di operazione doveva essere la
stessa che ha portato Renzi al potere in Italia, ma Macron, dimettendosi da
ministro e fondando un suo movimento ha avuto un coraggio impensabile in Renzi,
che mai si sarebbe dimesso a rischio di sparire dalla scena che conta. Così
come è introvabile in Renzi la preparazione e gli studi che invece ha coltivato
Macron. Tutta l’Europa, si guardi
soprattutto all’est, è attraversata da movimenti che profondamente impregnati
di valori nazisti, a volte richiamati apertamente. La politica nuova va in
questa direzione qualunque sia il volto che presenta caso per caso. La
sinistra, quella italiana i particolare, ha perso da tempo le ragioni del suo
esistere, (ma su questo mi ripropongo di tornarci sopra in un prossimo post)
per cui quel che sopravvive di essa è un residuo del passato, keynesiana in
economia, (Keynes, a proposito, è stato messo al bando in Turchia, a
testimonianza neppure primaria dello scempio di cultura e democrazia che sta
avvenendo in quel Paese) incapace di prendere posizione ferma e coerente su
tutti i problemi di grande attualità, dalla corruzione all’euro. Penoso che il
suo proiettarsi sulla situazione francese per tifare Macron.
martedì 2 maggio 2017
Trump, Renzi, le primarie e la democrazia
Premetto
che in passato sono andato a votare anch’io alle primarie, ma per motivi del
tutto contingenti, avendo voglia di esprimere qualche preferenza per i candidati più a "sinistra" di quelli ufficiali del Pd. Comunque una riflessione più approfondita
sullo strumento la voglio fare o ripetere, visto che di sicuro ho già trattato
l’argomento. Le primarie sono uno strumento consolidato negli Usa, e, secondo
la vulgata che se ne fa da queste parti, sono un segno di democrazia. Non mi
pare che siano molti in giro a riflettere su un aspetto per me evidente ed
essenziale, che gli Usa non sono affatto un buon esempio di democrazia sotto il
profilo dei sistemi elettorali, visto che di questo trattiamo, tralasciano
discorsi più ampi sulla democrazia. Il voto politico in Usa è farraginoso,
disincentivato e disincentivante ed è organizzato con un meccanismo in grado di
distorcere la “volontà popolare”. Le ultime elezioni presidenziali negli Usa ne
sono un esempio assai significativo. Se si fossero contati i voti sarebbe
risultata vincitrice la Clinton, invece di Trump, ma i voti dei cittadini hanno
una valenza relativa, perché il Presidente degli Stati Uniti d’America viene
scelto con una elezione di secondo grado, quasi come il Doge di Venezia dei
secoli andati. Ora nessuno riflette sulla contraddizione che a me pare
evidente, tra un valore importante come la democrazia e la pratica che ne consegue.
Insomma gli Usa, oltre a non poter essere un modello di democrazia sulla base
dei miei valori, non lo sono comunque la si pensi. Ora la elezione di Trump,
proprio questo ha significato, come ha giustamente osservato qualche commentatore
nell’immediatezza del voto: la crisi del modello planetario a Stelle e Strisce.
A maggior ragione verrebbe da chiedersi in quale sistema di valore si inseriscono
le primarie americane. Posto che esse sia uno strumento di “apertura” verso il
basso, occorrerebbe chiedersi come mai gli americani si siano dotati di un
sistema “aperto” nelle competizioni interne ai partiti, e chiuso e farraginoso
in quelle di maggiore portata istituzionale. Le risposte potrebbero essere
molteplici, ma qui, per brevità, mi atterrò a quella che a me pare una ovvietà,
a prescindere dagli orientamenti politici di riferimento, ossia che gli Usa
sono una cosa e l’Italia è un’altra. Sono storie, condizioni geografiche ed socio-economiche
talmente diverse da far pensare che solo gli stolti possano concepire apparentamenti
e similitudini tra sistemi istituzionali. Infatti sono convintissimo che il
nostro ceto politico sia fondamentalmente corrotto e incompetente. Allora,
ammesso che le primarie americane possono anche avere una ragion d’essere in
quella particolare situazione, non si capisce a cosa servono nel sistema
italiano. Da noi, tanto per dirne una, non c’è un sistema elettorale
consolidato, cosa che negli Usa c’è, che piaccia o meno, e si naviga a vista,
volta per volta. Questo è un sintomo evidente di una crisi politica di “sistema”
che è profonda e grave, anche se nessun osservatore, per quel che mi riesce di
constatare, la definisce tale. Intanto va notato che, come tutte le cose
riuscite male, le primarie italiane non sono di sistema, infatti solo il Pd le
adotta. Ma il Pd è un partito che spinge la propria insipienza fino a replicare
anche nel nome un partito americano, che ha tutt’altra tradizione. Neppure la
differenza tra destra e sinistra in America ha una storia minimamente rapportabile
a quella italiana; del resto è proprio questo il nocciolo duro e violento della
nostra “modernità” o del postmoderno come dir si voglia: annullare la nostra
storia, portare il nostro vissuto a galleggiare con quello altrui grazie alla
straordinaria tecnologia dei media. In questo contesto le primarie italiane,
dopo un periodo di “collaudo” si stanno consolidando per uno strumento che
nulla ha a che fare con la democrazia. Una volta le si sarebbero definite uno
strumento sciovinista, in cui gli elettori vengono chiamati a suggellare ciò
che è già deciso altrove. A meno che qualcuno non voglia sostenere che le
recenti primarie vinte da Renzi siano state primarie reali, in cui i
concorrenti abbiano avuto le stesse possibilità di vincere. Della
partecipazione di Orlando non mi stupisco, ma, confesso, attribuivo ad Emiliano
una capacità di guardare lontano che vedo smentita da questa circostanza. Insomma
anche lui, che stava con un piede fuori dal Pd, alla fine ha optato nella
modalità di quel vecchio detto barese, di solito pronunciato in dialetto, che
in vero è riferito ai soldi e non ad altro, che si preferiscono così: “pochi,
maledetti e subito”. Particolare gravità ulteriore scontano, sempre a parer
mio, queste ultime primarie. Esse sono state concepite come strumento per far
dimenticare agli elettori del Pd, che Renzi ha perso il referendum del 4
dicembre sulla riforma istituzionale da lui voluta. Insomma, a differenza che
negli Usa, le primarie del Pd non sono il prologo a elezioni politiche vere e programmate,
portatrici di un cambiamento di personalità al vertice insito nelle regole, ma
sono servite a consolidare il “vecchio” segretario. E pensare che qualcuno ha
sostenuto che partecipare a tali primarie, era un fatto di d e m o c r a z i
a.
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