domenica 18 ottobre 2015

La guerra, Renzi e la Storia. 4



 La vicenda di Heidegger è, dal mio punto di vista, assai sintomatica della assoluta mancanza di idee di sinistra, anche in quella parte di persone che impegnate politicamente si definiscono di sinistra. Infatti Heidegger è un nazista conclamato e la più parte degli intellettuali “di sinistra” non lo ha mai capito oppure lo ha esentato comunque dal conseguente stigma per via delle sue grandi capacità intellettuali. La questione sarebbe certamente delicata se non fosse per il fatto che le sue teorie sono organicamente naziste, e sul piano della storia della filosofia in generale il suo posto, dal mio punto di vista è tutto da rivedere, perché in fine il suo pensiero risulta privo di effettiva originalità e spessore teoretico, e che la sua “fama” è dovuta sostanzialmente al suo linguaggio, questo sì davvero originale, ma frutto di un immane esercizio e la sua capacità di ridefinire con altre parole, ciò che prima veniva definito più semplicemente. Dal punto di vista dei contenuti, invece, devo, per parlarne, aprire una parentesi filosofica. Condivido l’orientamento di quei filosofi contemporanei che collocano Heidegger all’origine del pensiero postmoderno, associato, in alcuni autori a Nietzsche. Non condivido questa associazione ma concordo con quanti (Fusaro ed altri) dicono di lui, per illustrane il pensiero, ossia che pone l’uomo in condizioni di estrema passività, poiché tutto è dato “in natura”.  Aggiungo che il suo lavoro è tutto a ritroso, con gli occhi rivolti al passato. Sembrerebbe tutto ciò contrasti con l’idea che egli sia il pensatore che ha dato origine al pensiero postmoderno che sembra un pensiero tutto proiettato verso il futuro ma si tratta, a parer mio, di una contraddizione apparente. Intanto il postmoderno si limita a “reclamizzare” il futuro e la “novità”, in realtà è tutto schiacciato su un presente che non ha più futuro, se non in una sostanziale riproposizione del passato magari rinominato, ossia con i contenuti tipici di un passato remoto, ma chiamati diversamente e spacciati per il nuovo che avanza. Il pensiero postmoderno è, in ultima analisi, pura réclame, fuori dalla storia in un certo senso, come concezione generale del mondo, senza più legami né con il passato né con il futuro, è una moda che passerà, sia pure con una scia di devastazioni pure già in atto. Chiudo la parentesi filosofica. Sotto il profilo politico invece credo che si debba a lui il linguaggio comunemente definito come politichese, esibito abbondantemente dai quadri del disciolto PCI, (quindi da sinistra) per rendere incomprensibili i loro discorsi nelle occasioni “ufficiali” a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Era lo strumento per rendere impraticabile il dibattito interno col risultato di fossilizzare l’intera organizzazione politica che da lì a poco si deve autosciogliere per il semplice venir meno di ogni ragion d’essere. E’ stato allora che in Italia almeno, si è aperto il dibattito su cosa si dovesse intendere per “sinistra” o per “destra”; dibattito ora nobile ora scadente e strumentale, ma per spiegarmi meglio è in questa fase che si costituisce il nucleo portante di questa riflessione approfittando del vuoto politico lasciato a sinistra dall’opera della segreteria Berlinguer di cui ho già detto su questo blog, la cui vicenda è precisamente la ricaduta politica della vicenda legata al pensiero di Martin Heidegger, della confusione esistente nella cultura e nella politica italiana per cui Berlinguer viene ancora considerato di sinistra. Tuttavia la moda di rinominare fenomeni e concetti sempre esistiti non è solo racchiudibile nelle vicende politiche del vecchio P.C.I. ma si è esteso a tutta la società. In quel momento è iniziato il percorso del “partito nazione” che si attribuisce a Renzi. Si badi bene che questa operazione non a caso parte da quella organizzazione che si riteneva fosse la più grande organizzazione “di sinistra” in Europa.  L’obiettivo della rivoluzione del linguaggio, un portato essenziale del postmoderno, consiste nel far percepire ai più, come fenomeni e fatti “naturali” e quindi ineludibili, concetti e fatti che sono e rimangono il portato di situazioni storiche relative, spesso opzioni puramente soggettive corrispondenti a precisi interessi di parte, che ora vengono ammantate da “verità” generali e assolute. A proposito di lavoro oggi si definisce “rigidità” rapporti imperniati su un determinate garanzie contrattuali che tutelano relativamente il lavoro subordinato, contrapposto a “flessibilità” un rapporto di lavoro decisamente riduttivo delle tutele delineatesi in Italia negli anni ’70. Queste situazioni con i concetti originali di rigidità e flessibilità, a ben vedere non hanno nulla a che spartire, salvo ad assumere come universale il punto di vista padronale, si sarebbe detto una volta, come se con il famigerato e orami ex art. 18 dell’ormai superato statuto dei lavoratori non fosse possibile licenziare o cambiare lavoro. Cambia solo il margine di discrezionalità dei cd. “datori di lavoro” che nessuno chiama “percettori di profitto” sebbene questa definizione rifletterebbe meglio i dati di realtà atteso che, se si vogliono vedere le cose come stanno, bisognerebbe prendere atto che lor signori distruggono lavoro, ambiente, salute, senza contropartita alcuna e che oggi il profitto, sul piano generale, tralasciando la sudatissima piccolissima o piccola impresa che comunque da sola non regge né mai potrebbe, l’economia di un intero paese, altro non è che appropriazione di risorse pubbliche. La definizione di “datori” è semplicemente ridicola. Comunque i danni del postmoderno non si limitano al linguaggio proprio del politichese o del diritto del lavoro, ma abbraccia ormai quasi tutto lo scibile umano. Ormai l’economia così come viene insegata nel sistema accademico internazionale è intriso da contenuti di livello tanto infimo quanto mistificatorio. Un esempio per tutti, credo sia “Questa volta e diverso” di Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff  (Il Saggiatore 2010) Raffrontando dati economici assolutamente eterogenei, provenienti da tutto il mondo lungo un arco lunghissimo di tempo cerca di sostenere che il pareggio di bilancio degli stati è condizione essenziale per lo sviluppo, ed è alla base della retorica dell’Unione Europea e dei suoi assiomi iperliberisti.  Poi, mi par di capire, gli autori stessi hanno in qualche modo ritrattato attribuendo errori di calcoli al lo programma di excel . Al contrario Luciano Gallino racconta semplicemente la verità a riguardo dei problemi dell’economia, ma non riscuote l’attenzione dovuta. Questa situazione non è solo il frutto della pochezza degli intellettuali e di un sistema mediatico da stato “totalitario” si sarebbe detto un tempo, ma il suo combinato col sistema dittatoriale che ci governa di fatto, e col terrore sottostante. Le teorie di questo genere contribuiscono a dare al termine “debito pubblico”, il significato mistificante che ha. Tali teorie sono state utilizzate ancora oggi per essere smentite senza ombra di dubbio dalla realtà di tutti i giorni ed in modo particolarmente drammatico dalla crisi greca, che si detto tra parentesi costituisce anche la clamorosa sconfessione della possibilità di una sinistra “moderna” e di governo. Siriza in Grecia si è rivelato una bluff senza precedenti, al punto di indire un referendum e poi nonostante l’esito favorevole, disattenderlo in modo davvero spettacolare, col risultato di accumulare debiti su debiti, mai più risarcibili alle condizioni imposte dalla Merkel per interessi privati tedeschi, tant’è che pure il Fondo Monetario Internazionale di Cristine La Gard si è chiamata fuori a lungo. La Germania della Merkel, sia pure con il fondamentale aiuto Usa, col pretesto delle teorie sul pareggio di bilancio ha capovolto gli esiti della II guerra mondiale e si erge vincitrice su tutti i paesi d’Europa cui infligge danni economici del tutto paragonabili agli esiti di un conflitto armato, ed esige pagamenti e tributi tipici dei paesi conquistati al paese conquistatore. Le teorie del debito sono ovviamente spazzatura, perché nella storia, le grandi potenze si sono indebitate senza mai risarcire, e/o al contrario, si sono ingrassate prestando soldi ai paesi deboli, al solo scopo di mantenerne la subalternità politica ed economica, risiedendo in ciò il vero guadagno. La supremazia Usa dal dopoguerra agli anni ’90 si poggiava sostanzialmente su questo. Poi è successo quel che diceva Mao ai suoi tempi, ossia che i reazionari sono stupidi, e fu così che i Reagan e i Bush (padre e figlio) posero le premesse del crollo di egemonia cui assistiamo, con la “delocalizzazione” e con il primato concesso all’economia basata sulla finanza piuttosto che sulla produzione di merci. Gli Usa, per tornare a parlare di debito pubblico, sono un fulgido esempio di come le grandi potenze di indebitano senza preoccupazioni di sorta. Più vicino a noi, drammaticamente, la Germania fonda la sua egemonia in Europa a partire dal fatto che non ha pagato i suoi debiti. Riporto un brano di un art. di Luciano Gallino del 22.08.2013 su “la Repubblica” “Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un art. presentato nel 2012 alla 40° conferenza di scienze economiche, che in moneta attuale codesto debito verso l’estero ammonterebbe a 2,2 -2,3 trilioni di € equivalenti all’incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l’anno per parecchi decenni.”  E aggiungerei, la Grecia starebbe un po’ meglio. Questa è la realtà di enorme portata politica che tranne pochi interventi, sono sistematicamente ignorati dalla nostra c.d. “libera stampa”. Quindi la realtà è stata capovolta, e la legge dominante è la legge del più forte, e le cd. “regole” valgono il tempo che trovano. Il problema del debito ha costituito un pretesto per soggiogare i paesi poveri, e, questa è la novità di questo momento storico,  impoverire anche gli stati nel cuore dell’Occidente che una volta si voleva sviluppato e coeso, mentre ora, per effetto di una crisi economica superiore perfino agli esiti di una guerra combattuta, spacca l’Occidente medesimo, e i paesi del mediterraneo sono destinati a contribuire alla rinascita tedesca, che tenta di sottrarsi persino dalla subordinazione agli Usa, con cui è praticamente in atto una guerra commerciale (vedi vicenda Volkswagen)  e perfino spionistica. Se questo è il quadro della crisi dell’Occidente, va colto ancora l’aspetto più raccapricciante, che consiste nella totale assenza di modelli alternativi di organizzazione socio economica. Il modello dominante che accomuna tutti gli attori principali della crisi odierna implicano uno “sviluppo” diseguale, con la ossificazione delle differenze sociali alla stregua di quanto succedeva nel medioevo.  In pratica si rinuncia di fatto al concetto stesso di “sviluppo”. Tutto ciò grazie agli strumenti della corruttela e all’inconsistenza del personale politico europeo e non solo, selezionato in modo mirato in grado di ricorrere al terrorismo più cinico e crudele oltre che alla prevaricazione militare. A differenza dei regimi degli anni trenta, e segnatamente del fascismo italiano, oggi il consenso politico non seve più. Mussolini teneva al consenso, comunque ottenuto, più di quanto non ci tenga Renzi, che pure spende parecchio per crearselo a posteriori avendo raggiunto posizioni di potere con l’intrigo giocato in segrete stanze e col favore dei media. Egli sa che la sua posizione è garantita da meccanismi che prescindono totalmente da esso, tant’è che sotto questo profilo non si mette neppure in gioco, e il suo potere si reggerebbe in apparenza, solo e unicamente su “primarie” del Pd, in cui sotto gli occhi di tutti e con la copertura di tutti, compresi i “perdenti” hanno votato per sancire quello che era già sancito. Se serve ancora una prova della manovrabilità degli esiti elettorali che risultano validi solo se conformi alle strutture di comando reale di tutto l’Occidente, composto da persone che neppure si cimentano con alcun confronto elettorale tanto sono inutili.  Questa situazione è anche il prodotto, mi ripeto, di una storia cosparsa da scie di sangue, spesso ai danni, e questo la qualità nuova e postmoderna del terrorismo, di persone inermi e inconsapevoli, che casualmente si trovavano in una certa banca in un certo giorno, o su dei treni, meglio ancora se in piazze politicamente impegnate come a Brescia del 1974 a Piazza della Loggia, o in luoghi apparentemente neutri, impossibilitati a far presagire alcun tipo di pericolo. Il messaggio sublimale di terrore che emana dalle stragi della nostra storia è cosa viva e vera operante ancora oggi su cui nessuno si sofferma, come se non esistesse, modello copiato anche dalla Turchia recentemente.  Altro tipo di terrore, più classico se vogliamo, è quello degli omicidi o delle stragi mirate, da Moro ai giorni nostri. Ora comunque anche la cronaca giudiziaria ci racconta di quanto sia profondo l’intreccio tra politica e criminalità in Italia, sempre connessi con le attività “illecite” dei “servizi segreti”. In Italia chi tratta materiale scottante a riguardo è minacciato e taluni vivono sotto scorta, e pur si sa che in fine la scorta serve a poco.  La libertà nostra è condizionata e ben recintata, e chi sgarra muore come è toccato ad una serie lunga di nostri concittadini il cui ricordo è legato, nella migliore delle ipotesi negli anniversari degli accadimenti, e nella peggiore nel più assoluto dimenticatoio. Alle politiche personalmente, voto M5S ma non credo abbia la risoluzione al problema. Il meglio per domani va costruito pazientemente dall’oggi, mentre di un lavorio del genere non si scorgono neppure le premesse. Sperare negli eventi, sotto il profilo politico è pura follia. Il corso degli eventi si sviluppa su binari già ben costruiti; possono cambiare gli attori che si susseguono ad un ritmo sempre più incalzante, ma è già sperimentato che al peggio non c’è fine. Tutti si credeva che dopo Berlusconi le cose sarebbero cambiate in meglio, ma così non è stato. Quindi non è possibile dubitare ancora dell’esistenza di una “linea nera” che ben radicata nelle nostre istituzioni attraversa i governi e tutte le stagioni della politica. Voglio asserire con decisione che se fossimo uno stato libero con annessa libera stampa, questi argomenti sarebbero occasione di dibatti e approfondimenti in almeno una parte di quei talk show che tanto spesso parlano del nulla o del possibile, intuibile retropensiero di personaggi assai poco pensierosi quali Renzi, Salvini, Berlusconi, come argomento costante, e in via transeunte, all’esaltazione di personaggi vari- e qui Berlusconi è ricompreso- che indagati e accusati e perfino condannati nei primi gradi di giudizio di fatti ripugnanti e perfino di omicidi vengono assolti dalla Corte di Cassazione. Se si dovesse leggere la storia d’Italia degli ultimi sessant’anni attraverso le sue sentenze questo organismo risulterebbe un paese quasi paradisiaco, in cui gli unici incapaci sono magistrati e i componenti di polizia giudiziaria. L’impunità garantita per quasi tutti i reati più gravi e sconvolgenti è una costante della situazione italiana, a riprova della gravità della crisi che ci attanaglia. Il terrore, costituisce una sorta di “convitato di pietra” nello svolgimento della vita politica. Che questo terrore sia l’eredità di quello nazifascista è cosa per me certa e il nesso che li congiunge è rintracciabile con lo strumento dell’analisi storica. Ogni volta retoricamente si grida alla sconfitta del terrorismo, nonostante mai si sia dato il tempestivo e reale scoperchiamento delle trame e di chi le ordisce nella più totale impunità. Il paradosso consiste nella constatazione per me ovvia, che il presidio delle libertà democratiche, quelle certamente ristrette della prima repubblica ma significativamente e ulteriormente ristrette nella cd seconda, è stato imposto dalla semplice esistenza della vecchia Unione Sovietica. L’ho detto e lo ribadisco, e qui, sia ben chiaro, le mie convinzioni non hanno base ideologica, perché, non sono uno stalinista, ma a volte liberarsi dei veli ci fa vedere meglio ciò che ci succede intorno. Non è possibile non rilevare che vi sono certamente delle coincidenze e non sono affatto sicuro che siano prive di un rapporto causa-effetto, ma il crollo dell’Urss è coinciso precisamente con l’involuzione autoritaria nel nostro Paese, e in tutta l’Europa. Intanto va detto che esso è frutto di un lavorio degli Usa che non hanno mai cessato di complottare nella vecchia Unione Sovietica e di pari passo in Europa, perché il totale controllo dell’Europa coincide con l’affossamento dell’Urss. Il lavorio è stato lungo prevalentemente per linee interne e parallele. Sarà un caso ma il “rapporto segreto” che Krusciov, allora segretario del Pcus, tenne in una sessione segretissima, (che escludeva non solo i giornalisti ma anche i delegati dei “partiti fratelli” quali Palmiro Togliatti per il Pci, Maurice Thorez per il Partito Comunista francese ma anche dei partiti communisti al potere) il 24 Febbraio 1956 al 20° congresso del medesimo Pcus, e che verteva esplicitamente sui “crimini di Stalin” fu reso noto per la prima volta al mondo da Harrison Salisbury sul News York Times il 16 marzo dello stesso anno. ( Luciano Canfora, 1956 L’anno spartiacque, ed Sellerio 2008). Ora è del tutto lecito domandarsi come avessero fatto gli americani ad avere il testo della relazione segreta di Krusciov, prima di tutti gli altri partiti comunisti del mondo, pure presenti al medesimo congresso. A riguardo il libro citato di Canfora, ricchissimo di dati che credo incontrovertibili, giunge a conclusioni su cui mi permetto di dissentire. Il problema non è di rimettere al centro di una riflessione del 2014 fatti che sembrano seppelliti dalla storia, semmai di rimarcare come la storia non storia stessa non seppellisce nulla, al massimo scopre e riscopre. La “destalinizzazione” in Urss è stata la premessa per il suo crollo definitivo nel ’89. Quanto poco ideologico e molto economico fosse il problema lo dimostra, sia pure a posteriori, dal problema che oggi la Russia di Putin (mirabile esempio di “progresso” che si concretizza con un micidiale ritorno al passato) ripropone, in termini ancora più cruenti di quanto non lo ponesse la vecchia “guerra fredda”. Il tema della contrapposizione con la vecchia Urss, anche quella “destalinizzata” e quindi in qualche misura addomesticata, aveva contenuti definibili come problema del modello di sistema egemonico al livello planetario. Bisognava cioè dimostrare al mondo che l’unico modello di organizzazione sociale dovesse essere quello “made in Usa”. Solo che questa volta non ci sono veli ideologici, in cambio la Russia di oggi non ha conservato l’estensione territoriale né la potenza militare dei tempi andati, per quanto, in tema di bilanciamento, gli Usa non hanno realizzato una chiara supremazia militare, al contrario, si spettacolarizza una certa crisi tecnologica se si mettono insieme alcuni fatti recenti, quali il fallimento ripetuto di esperimenti spaziali Usa, (con il corrispettivo successo di analoghi russi), e il fallimento del progetto degli aerei da combattimento F35, sancito dal Pentagono medesimo. Ma la guerra non si fa solo con le armi perché in Europa la guerra è ripresa con un mix di violenza militare come quello manifestatosi nello smembramento della Jugoslavia, e ancor di più con l’euro. Comunque, riducendo la questione alla sintesi estrema, è evidente che tra i motivi per cui l’Urss doveva cadere quello economico era tra i più importanti, perché quella esperienza dimostrava e dimostra ancora che una economia programmata che punta a produrre merci in funzione del loro effettivo utilizzo, nella misura del possibile, e con tutte le approssimazioni del caso, elimina la più parte degli gli sprechi annessi alla “libera concorrenza”, per altro bandita pure dalle economie liberali, la quale prevede una produzione di merci tendenzialmente infinita e finalizzata alla accumulazione di ricchezza a prescindere dalle necessità e opportunità di consumo, di modo che  una parte assai consistente, di grandezza variabile a seconda dei periodi, va sprecata proprio perché soccombenti nella concorrenza per un verso, o per altro per la saturazione dei mercati relativi, che inducono la produzione di nuove merci tecnologicamente sofisticate, ma senza che incontrino un bisogno effettivo, al contrario, solo l’esito di bisogni indotti che non concretizzano, a ben vedere nessun reale progresso nella vita quotidiana dei c.d. “consumatori”. In tal modo si realizza uno spreco di risorse forsennato, che si aggiunge al la tradizionale crisi di sovrapproduzione. Si vuol negare il dato certo che a quest’ ultimo problema si era trovato rimedio con la famigerata “programmazione”, il miracolo di cui nessuno parla per  cui l’Urss progredì anche durante un conflitto mondiale tremendo  svoltosi per tanta parte sul proprio territorio, in misura e a ritmi ben maggiori di quanto non riuscissero a fare gli Usa, che, si badi bene, “giocavano fuori casa”, (per usare una metafora calcistica) sul piano delle operazioni belliche e relative distruzioni, con tutti i vantaggi del caso. Oggi, al tempo della crisi greca e non solo, qualcuno potrebbe ricordarsi che vi sono strumenti di progresso reale del tutto opposti a quanto predicato e praticato a tutte le latitudini. Non c'è economista che vi rifletta. Il cd. p “pensiero unico” vieta simili riflessioni. I migliori e più di “sinistra” non vanno oltre Keynes. Eppure ancora oggi la Russia risulta essere più progredita dal punto di vista tecnologico e militare rispetto agli Usa, e nessun, mi ripeto, fa caso che le premesse di questa superiorità furono poste negli anni dal 1917 al 1950 e oltre, grazie a quella “ideologia” messa la bando in nome di un pragmatismo che ci sta portando, di nuovo, sull’orlo di un catastrofico conflitto mondiale.