lunedì 29 dicembre 2014

Come il cacio sui maccheroni. In onore di Giovanni Pesce, Nori Brambilla, Roberto Bentivegna e di tutti i gappisti della resistenzaza al nazifascismo.


 Qui apro solo una parentesi, forse lunga, per altro solo apparente, nella serie dei post dedicati a Renzi, la storia e la guerra.  Questa parentesi mi è quasi imposta da un fatto casuale. Succede infatti qualcosa che mi dà la conferma  sperimentale di quanto mi affanno a dimostrare concettualmente, ossia che oggi il dominio culturale  si esercita avendo tra i suoi presupposti, quello fondamentale della rivisitazione della storia che si sciorina su due versanti, quello della demolizione della storia come disciplina specifica, e al contempo quello della sua revisione fino a capovolgere le conclusioni sin maturate sino al novecento, prescindendo in modo eclatante dai fatti; o per meglio dire, i fatti vengono menzionati per quello che sono, ma esposti in modo tale, e con un linguaggio per cui le conclusioni che se ne traggono  stridono con i fatti stessi, quei fatti il cui solo racconto ordinato, logico e conseguente, induceva ad un giudizio trasparente.  C’è questo, nel libro di cui voglio parlare, e di più c’è anche la prova dell’affinità tra pensiero liberale e pensiero nazifascista. Il problema è che alcune concezioni ormai fanno parte del senso comune, e si collocano a monte di scelte politiche o ideologiche, ragion per cui non è possibile etichettare politicamente questo tipo di elaborazione con i criteri imperanti.  Quindi come cacio sui maccheroni, insieme anche alle notizie di questi giorni della “ufficializzazione” delle torture della Cia sebbene condite nei resoconti giornalistici, dalla precisazione per cui, detta  “ufficializzazione” costituisca l’ennesima riprova della vocazione democratica degli Usa contando sulla ormai proverbiale memoria corta di noi altri che scordiamo come le torture furono sempre ufficialmente rilevate a distanza di tempo, in occasione di tutte le campagne militari Usa dal dopoguerra ad oggi, per poi consentire agli Usa medesimi di ergersi a baluardo internazionale dei diritti umani. Perfino il ricorrente omicidio di cittadini Usa di colore, sebbene inermi, da parte delle polizie locali, viene interpretato come un problema la cui gravità non intacca la forza egemonica di questo pur grande Paese, in grado di proporsi ancora come modello di democrazia a dispetto dell’evidenza. Ma tornando al dunque, come cacio sui maccheroni, vengo a conoscenza casualmente tramite lettura de “La Repubblica” di Martedì 11 novembre 2014, a pag. 50 dove trovo una recensione curata da Simonetta Fiori di un libro di “storia” guarda caso, scritto da Santo Peli, autore sconosciuto a me sino a quel momento, che si intitola “Storie di Gap” con sotto titolo “Terrorismo urbano e Resistenza” edito da Einaudi 2014. Si badi bene, la pubblicazione è recentissima, il giornale è “La Repubblica” e l’autrice della recensione è Simonetta Fiori quindi né il giornale né la giornalista né la casa editrice, possono essere considerati specificamente etichettati come di destra nell’attuale panorama politico ed editoriale, e questa circostanza è importante ai fini della tesi che voglio dimostrare. La recensione della Fiori mi appare asettica, con una illustrazione precisa ed esauriente dei contenuti del libro senza offrire un suo giudizio soggettivo nel merito dei problemi posti dal libro medesimo. Santo Peli è un autore che testimonia quanto sostenevo in merito alla crisi delle discipline storiche e del nesso preciso tra queste e l’esigenza politica di attenuare il giudizio negativo sul nazismo, tramite una sorta di sterilizzazione dei fatti e delle tragedie che ha provocato, ottenendo per questa via una qualche forma di sua oggettiva legittimazione, spostando, e questo è davvero indegno, il mirino della critica storica su chi il nazifascismo combatté con tutte le sue forze.   Intanto il sottotitolo è già eloquente di per sé: “Terrorismo urbano e Resistenza”.   L’associazione del concetto di terrorismo ai gappisti che sono a tutti gli effetti resistenti e combattenti a pieno titolo, molti dei quali persino insigniti di medaglia d’oro al valor militare, è un insulto tanto vile quanto gratuito, spacciato poi per “storia”. Al colmo dell’insulsaggine, questo autore cerca di giocare sulle parole adducendo a sostegno della sua tesi aberrante, la citazione di un documento del Corpo Volontari della Libertà per altro ripetuta in nota al capitolo primo a pag. 27 che definisce i Gap come “Formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica contro i nemici e i traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del nemico ecc.”. E qui siamo solo a pag. 7 nell’introduzione. Si tratta di un meschino gioco di parole, peraltro evidente. C’è una differenza abissale tra il voler terrorizzare i “nemici e i traditori”, in tempo di guerra e il terrorismo tout-court, praticato in tempo di pace sia pur relativa, ed uno storico serio dovrebbe evidenziare tale differenza, non giocarci sopra.Il terrorismo come è inteso oggi non può essere ricompreso in questo documento citato del CVL. Sfugge inoltre all’esimio storico che furono proprio i tedeschi a coniare l’appellativo di terroristi a danno di tutto il movimento partigiano, senza contare che se si vuol usare il termine nel suo significato più autentico, bisogna comprendere che tale concetto implica la casualità delle vittime prescelte, esattamente come è avvenuto in Italia dalla fine degli anni ’60 sino ai primi anni ‘80. Al contrario gli obiettivi dei Gap erano ben ricompresi in specifiche categorie di persone che praticavano davvero il terrore sulla popolazione inerme. Così scrivendo il Prof. Peli compie un radicale quanto clamorosa inversione di giudizio storico sul nazifascismo. Né tale conclusione si poggia solo sul tratto citato. Infatti egli ribadisce che quello dei Gap è terrorismo urbano per le modalità proprie di operare “…… combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, sia con uccisioni mirate di singoli individui sia con attentati dinamitardi;”   Nella introduzione, inoltre il nostro autore opera una drastica e radicale contrapposizione tra la situazione in montagna e quella in città, come se lo stato di guerra fosse diversamente graduabile tra la montagna e le città. Tale netta divaricazione è strumentale ad una polemica “postuma” per così dire, col dissolto Partito Comunista Italiano, in cui ho militato per alcuni anni senza condividere le scelte politiche, come testimonia il mio post su Berlinguer. Ma la polemica politica è una cosa e la ricerca storica dovrebbe essere altro, ma non per questo autore. Tali affermazioni presuppongono necessariamente, se la logica conta qualcosa, che negli anni dal ’43 al 45 in Italia non c’era la guerra, altrimenti gli atti dei gappisti, coerentemente dovrebbero essere definiti come atti di guerra, così come è avvenuto sin ora. Solo che per il Prof. Peli dà conto, a modo suo, del perché sino ad oggi non si è equiparato l’azione dei gappisti a quello dei terroristi. Infatti scrive, sempre nella sua introduzione: i Gap sono organizzati e diretti dal Pci, e dunque restano, durante la Resistenza e anche nei decenni successivi, connotati politicamente in modo molto più marcato di quanto accade per tutte le altre formazioni partigiane, che progressivamente subiscono un parziale processo di fusione nel Corpo Volontari della Libertà”. Intanto il già citato documento del CVL smentisce l’estraneità dei Gap, al resto della resistenza ma la smentisce egli stesso più avanti quando ricorda che altri partiti e organizzazioni della resistenza collaborarono con i gappisti quantomeno nel supporto logistico. C’è inoltre un’altra dose di falsità in queste affermazioni perché è accertato in modo incontestato, neppure dal Prof. Peli che il Pci fu il principale organizzatore di tutta la resistenza e notoriamente, le brigate Garibaldi, che combattevano sui monti, erano le più numerose e combattive.  Infatti c’è stato un lavorio culturale negli anni del dopoguerra per evitare che si affermasse definitivamente la convinzione per cui il Pci fosse stato l’esclusivo fautore della resistenza, convinzione assai diffusa e accettata generalmente sia pure con motivazioni contrastanti. Rimane il fatto comunque che il Pci fu il principale promotore della resistenza tanto in città quanto in montagna. Ma il Prof. Peli come dicevo, crea, in modo per me assolutamente antistorico una scissione drastica oltre il ragionevole quanto afferma, sempre nell’introduzione che: “..la scelta di combattere per la Liberazione  coincide con l’ascesa ai monti, gesto definitivo e catartico,   ingresso in una nuova vita comunitaria, fatta di <stenti e di patimenti>, e però anche ricca sperimentazione di una rinnovata dimensione esistenziale e politica”  mentreLe città sono il luogo della fame, del mercato nero, delle retate improvvise, delle deportazioni di ebrei e operai, dei bombardamenti.”   Ecco dunque come le categorie di una psicologia di risulta sostituiscono le categorie della storia. Intanto è privo di significato logico e conseguente l’uso dell’aggettivo definitivo, mentre per il resto di questa citazione, pare dia l’impressione che la guerra quasi non esiste, quasi che in montagna ci si andava a fare una scampagnata, o poco ci manca, e sì, qualche volta si sparvava pure, ma per il resto è tutta una catarsi che fa stare meglio, e poi c’è, nientedimeno che una vita comunitaria in cui gli stenti e i patimenti sono messi tra virgolette, a richiamare il ritornello di uno dei canti partigiani “I ribelli della montagna” le cui strofe iniziali “Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne/cercando libertà tra rupe e rupe/ contro la schiavitù del suol tradito”  sono all’epigrafe di questa pubblicazione. Dunque non esistevano i bombardamenti, o meglio li cita senza mai trarne le logiche conseguenze sulla vita delle popolazioni italiane. Né si pensi che tali mie conclusioni siano forzate, infatti i concetti vengono ribaditi sempre nell’introduzione dove  si legge ancora “Che anche la guerra partigiana in montagna sia di necessità combattuta con un susseguirsi di imboscate, di agguati e precipitose ritirate, poco importa; in montagna si fa vita collettiva, si dibatte, si scrivono giornaletti, si sperimentano nuove forme di partecipazione alle decisioni. Le bande partigiane, almeno tendenzialmente .. sono aperte a tutti, a prescindere dalle adesioni un partito (e del resto all'inizio sono ben pochi partigiani con una sufficiente alfabetizzazione politica). Nulla di tutto ciò può accadere nell'organizzazione e nella pratica della lotta armata in città: né lo consentono le regole della clandestinità e la stretta dipendenza dal partito comunista.”  Ecco il punto dolente del Prof. Peli, ossia la polemica con il Pci, come presupposto costante di tutto il libro. Sembrerebbe, a leggere queste righe che la “stretta dipendenza dal partito comunista” sia un che di settario, quasi che ad altri fosse preclusa la partecipazione alle attività dei Gap, o che il Pci medesimo in quegli anni fosse in grado di precludere ad altre formazioni della resistenza l’attività di guerra partigiana in città. Circostanza neppure vera in toto, perché vi fu come, ribadisco, come dirà chiaramente più avanti oltre lo stesso Peli, la collaborazione di altre formazioni della resistenza. Comunque si potrebbe operare una interpretazione del pensiero di questo autore con la banalissima applicazione della proprietà transitiva, per cui se i gappisti furono terroristi, e se i gappisti erano rigorosamente communisti, il Pci medesimo fu terrorista. Uno dei problemi di fondo di questo autore, continuo a ribadire, è quello di anteporre le sue convinzioni ideologiche all’analisi dei fatti, e per illustrare meglio tutto ciò ricorro alle sue stesse parole. Qui siamo al capitolo primo a pag. 15: “I comunisti, da subito, optano per un modello basato sulla guerra per bande, sull’esempio jugoslavo, che prefigura una lotta di popolo; i dirigenti del Pda (partito d’azione) o almeno parte di essi (Ferruccio Parri in particolare) preferirebbero la creazione di un esercito più tradizionale, guidato da quadri militari professionali. Il primo modello rimanda a una idea di popolo in armi e dunque anche a una vasta mobilitazione politica che affida ai partiti un ruolo centrale; il secondo modello continua a privilegiare la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”. Qui l’interpretazione si fa ardua, perché sulla base di quanto scrive in questo libro non è chiaro cosa voglia dire. Cerco di analizzare: Ferruccio Parri fu il principale esponente delle brigate di Giustizia e Libertà, che si ispiravano al Partito d’Azione che erano organizzate alla stessa stregua delle brigate Garibaldi che erano dirette dal Pci e dai socialisti. Ora è assolutamente comprovato che anche Ferruccio Parri, a tutto ammettere, fece di necessità virtù e si adeguò, nel migliore dei casi al reclutamento di civili ispirati da idealità politiche, né il Prof. Peli nega la circostanza, al contrario, altrove in questo libro lo dice chiaramente. Quindi il tratto citato è privo di senso, a meno che l’autore non voglia alludere alla nota questione dell’ “attendismo”, termine usato storicamente, per alludere a posizioni politiche e militari presenti nella resistenza,  soprattutto nel Partito d’Azione, secondo cui la lotta partigiana dovesse svolgere un ruolo di mero supporto alla forze alleate, attenersi alle loro direttive, senza darsi una propria e autonoma strategia  e quindi limitarsi ad “attendere” l’arrivo degli alleati. Solo che, se di questo si tratta, non si capisce perché il Prof. Peli non si richiami esplicitamente alla tale circostanza, o meglio, una supposizione posso farla, e consiste nel ritenere che egli preferisca connotare come dato “storico”, esito attuale delle sue personali ricerche, quella che era un’opzione politica soggettiva poi rivelatasi come minoritaria, presente nel dibattito resistenziale ab illo tempore. Miseria della storia postmoderna. La convinzione per cui la guerra la debbano fare solo gli eserciti regolari, è propria di Santo Peli e il passo citato credo conferisce a tutto il libro una cifra intellettuale davvero bassa. Di più, né i tedeschi né gli alleati sopportavano che gli italiani avessero un loro esercito, tant’è che i tedeschi preferivano che i giovani italiani lavorassero per loro anziché combattere al loro fianco, per cui i loro rastrellamenti erano finalizzati appunto alla produzione e non all’arruolamento militare alla Repubblica Sociale di Salò. Anche gli alleati, dopo svariate insistenze del governo italiano consentì la formazione di un esercito ma a condizione che dipendesse esclusivamente dai loro comandi, tant’è che dopo l’episodio di Montecassino, fu spostato in Gran Bretagna per partecipare allo sbarco in Normandia. L’esercito italiano, quello che dipendeva da Badoglio e dal re, non per colpa sua, lasciò che Roma cadesse in mani tedesche tranne la reazione eroica e spontanea della divisione “Granatieri di Sardegna” insieme ad una parte della popolazione. Insomma lo stato italiano nel periodo storico di cui trattiamo non c’era in alta Italia e non poteva esserci, di conseguenza il Prof. Peli fa una polemica del tutto strumentale di infimo livello.  Del resto non sarebbe una posizione originale, ma tanto vale esplicitarla in un altro tipo di pubblicazione, senza bisogno di dare del terrorista a persone come Giovanni Pesce, come tutti gli altri gappisti che furono quadri politici prima di tutto e non assassini a sangue freddo, come vuol fare intendere. Comunque chiudo qui le riflessioni sulla “raffinatezza” del prof. Peli circa i criteri che privilegiano “la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”, di cui sopra. In realtà il Prof. Peli pensa che la resistenza non andava fatta. Il pensiero può pure avere una sua logica, solo che va rappresentato per quello che è, ossia un pensiero del prof. Peli, neppure tanto profondo, se mi è consentito, che con la ricerca storica ha poco a che spartire. Nel primo capitolo, proseguendo nella analisi del testo, sostiene che nelle città non c’era in effetti nessun bisogno di fare resistenza perché i tedeschi erano buoni o meglio, udite udite, erano cattivi solo in montagna. Infatti cita la strage di Boves, del 19 settembre 1943, come strage gratuita, ma siccome la notizia non si era diffusa rapidamente nelle città, in esse si respirava un’aria tranquilla. Da non crederci ma è proprio così. Ora a parte la contraddizione in cui cade senza neppure rendersene conto il Prof. Peli quando dà conto della strage di Boves in montagna, con la tesi precedente che ho riportato integralmente circa quella sorta di levità che egli attribuisce alla scelta di andare a combattere i tedeschi in montagna, dove, ora lo ammette, non è che ci fosse tanto di che fare catarsi e scrivere giornaletti come se non ci fosse nulla di autenticamente drammatico. Comunque, udite ancora, “…. la percezione della brutalità dell’occupazione tedesca e della guerra civile a essa strettamente intrecciata non è chiara, nelle città, fino a quando non iniziano gli attacchi gappisti. I comandi militari tedeschi nelle città tengono un profilo, se non conciliante, in generale alieno dal prendere drastiche misure d’ordine pubblico, a meno di essere direttamente attaccati, mentre rispondono con ferocia annichilente alla formazione dei primi nuclei partigiani in montagna”. Si scopre così che i tedeschi furono concilianti, seppure limitatamente alle città. Ma si badi al linguaggio. Le attività dei tedeschi, ossia deportare ebrei e lavoratori, per sua stessa ammissione, è ricompresa nella categoria dell’“ordine pubblico”, e le atrocità tedesche le connette con la guerra civile. Insomma la resistenza fu anche per il prof. Peli una guerra civile. Tesi non certo originaria e tuttavia infondata. In Spagna, tanto per capirci, ci fu vera guerra civile, per ovvie ragioni, ma nel resto d’Europa, a partire dal 1939 ci fu una guerra mondiale, ed è il concetto di guerra mondiale che il prof. Peli proprio non accetta. Medesimo discorso fa questa corrente di pensiero, di cui evidentemente il nostro autore è solo un esponente, a proposito delle foibe. Quasi si rimuove la circostanza della guerra e si attribuisce alla resistenza comunista la responsabilità delle tragedie accadute. Tornando al testo voglio ripetere il concetto per cui la deportazione di ebrei e lavoratori erano sostanzialmente legittime per il prof. Peli, e tali da non creare tragedie per la popolazione. Ora se così fosse non si comprenderebbe perché i napoletani insorsero tra il 27 e  il 30 settembre 1943,  cacciando i tedeschi prima dell’arrivo degli alleati, e perché alcuni giorni prima pure i romani insorsero seppure con esiti diversi. Il punto mi pare questo. Il prof. Peli ritiene sostanzialmente legittime, tollerabili e tollerate le attività tedesche nelle città se non fosse per l’azione dei Gap, che non a caso prima ha dichiarato essere terroristi. Infatti c’è un paragrafo del primo capitolo che recita proprio così a pag. 22: “Creare un’atmosfera di guerra” .  Qui torna un uso spietato e violentissimo delle parole. Vi immaginate se tra bombardamenti, razionamento alimentare, rastrellamenti per deportare ebrei e lavoratori, nelle città italiane, con la popolazione che pativa l’assenza di notizie sui loro cari dal fronte, o di notizie tragiche, ci fosse bisogno di creare artificiosamente un’atmosfera di guerra?. Ebbene, la risposta per il prof. Peli è positiva. La guerra in città la portarono i Gap, e se credete che sia una mia forzatura polemica leggete quanto scrive lo stesso autore a pag. 20: “inizialmente sono soprattutto i fascisti a imporre ed eseguire le rappresaglie in città, e i tedeschi nicchiano, forse consapevoli che i Gap sono lo strumento scelto per creare l’atmosfera di guerra, che è contraria al loro desiderio di sfruttare le risorse industriali e la forza lavoro concentrata nel triangolo industriale col minor dispendio di energie. Perseguendo questo scopo, l'esercito occupante inizialmente sarà piuttosto restio a ricorrere a misure repressive molto dure, che avrebbero, tra l'altro, l'effetto di rendere ancora più complicato lo svolgersi delle attività produttive, alle quali tedeschi sono massimamente interessati. Anche l'allungamento del coprifuoco, o il divieto di transito per le biciclette, sono risposte agli attacchi del Gap prese controvoglia, che gli occupanti vorrebbero evitare se appena possibile. La percezione della barbarie, della brutalità del << nuovo ordine>>, e dunque affievolita sia dalla sapiente regia tedesca, capace di atteggiarsi come ragionevole e lungimirante freno alla truculenze del fascismo repubblichino, sia dalla specifica condizione di una nazione che per vent'anni di fascismo hanno abituato alla prima azione di ogni forma di libertà, all'assenza di ogni certezza del diritto.”   Riepilogando quanto si evince esplicitamente sin qui per il Prof. Peli i tedeschi erano cattivissimi in montagna, e buoni in città al punto che la popolazione apprezzava lo stato di cose e il coprifuoco non era connesso ad una situazione di guerra come i bombardamenti, ma a una questione di ordine pubblico. Insomma i tedeschi come Giano bifronte, mentre i fascisti italiani erano cattivi sia in città che in montagna, e i tedeschi svolgevano un ruolo di freno su di loro. Ora, sdiamo di fronte ad una falsificazione storica evidente. Al di là degli episodi specifici cui si fa riferimento nel libro, sul piano generale i fascisti erano del tutto subalterni ai tedeschi, e tutto il loro operare era funzionale ai loro interessi, senza nessuna possibilità di scelte autonome. La Repubblica Sociale di Salò era una mera propaggine della Germania hitleriana, non a caso furono i tedeschi a liberare Mussolini dalla restrizione sul Gran Sasso ad opera delle autorità dell’Italia monarchica, e lo insediarono con un potente rafforzamento della loro presenza militare nell’Italia del centro nord, e giunsero ad annettersi direttamente dal 1° ottobre 1943, le provincie di Trieste, Friuli, Gorizia, l’Istria, per non parlare del già tedeschizzato Alto Adige, esautorando del tutto le autorità italiane. Come giustamente rilevano Salvatorelli e Mira, storici di tutt’altra forza rispetto al Prof. Peli, Mussolini accettò passivamente la decisione tedesca a riguardo la cessione di territori per la cui annessione si era battuto e che fu motivo non secondario della sua ascesa al potere nel ’22. (Confr. “Storia d’Italia nel periodo Fascista” di Salvatorelli e Mira, ed. Mondadori 1969 pag. 558, secondo volume). Insomma, sul piano generale una separazione di responsabilità tra tedeschi e fascisti in merito alle atrocità della guerra non è possibile. Concludendo i fascisti italiani, autonomamente, non avrebbero avuto la forza necessaria per compiere le efferatezze che commisero, e il dato è universalmente accettato e non contestato neppure dal Prof. Peli, la cui ricerca si applica su dettagli, e la natura di questi dettagli non è tale da invertire il giudizio storico generale consolidato sin qui, come invece il nostro autore cerca di fare.