Qui apro solo una parentesi, forse lunga, per
altro solo apparente, nella serie dei post dedicati a Renzi, la storia e la
guerra. Questa parentesi mi è quasi
imposta da un fatto casuale. Succede infatti qualcosa che mi dà la conferma sperimentale di quanto mi affanno a dimostrare
concettualmente, ossia che oggi il dominio culturale si esercita avendo tra i suoi
presupposti, quello fondamentale della rivisitazione della storia che si
sciorina su due versanti, quello della demolizione della storia come disciplina
specifica, e al contempo quello della sua revisione fino a capovolgere le
conclusioni sin maturate sino al novecento, prescindendo in modo eclatante dai
fatti; o per meglio dire, i fatti vengono menzionati per quello che sono, ma
esposti in modo tale, e con un linguaggio per cui le conclusioni che se ne
traggono stridono con i fatti stessi,
quei fatti il cui solo racconto ordinato, logico e conseguente, induceva ad un
giudizio trasparente. C’è questo, nel libro
di cui voglio parlare, e di più c’è anche la prova dell’affinità tra pensiero
liberale e pensiero nazifascista. Il problema è che alcune concezioni ormai
fanno parte del senso comune, e si collocano a monte di scelte politiche o
ideologiche, ragion per cui non è possibile etichettare politicamente questo
tipo di elaborazione con i criteri imperanti. Quindi come cacio sui maccheroni, insieme
anche alle notizie di questi giorni della “ufficializzazione” delle torture della
Cia sebbene condite nei resoconti giornalistici, dalla precisazione per cui,
detta “ufficializzazione” costituisca
l’ennesima riprova della vocazione democratica degli Usa contando sulla ormai
proverbiale memoria corta di noi altri che scordiamo come le torture furono
sempre ufficialmente rilevate a distanza di tempo, in occasione di tutte le
campagne militari Usa dal dopoguerra ad oggi, per poi consentire agli Usa
medesimi di ergersi a baluardo internazionale dei diritti umani. Perfino il ricorrente omicidio di cittadini Usa di colore,
sebbene inermi, da parte delle polizie locali, viene interpretato come un
problema la cui gravità non intacca la forza egemonica di questo pur grande
Paese, in grado di proporsi ancora come modello di democrazia a dispetto dell’evidenza.
Ma tornando al dunque, come cacio sui maccheroni, vengo a conoscenza
casualmente tramite lettura de “La Repubblica” di Martedì 11 novembre 2014, a pag.
50 dove trovo una recensione curata da Simonetta Fiori di un libro di “storia”
guarda caso, scritto da Santo Peli, autore sconosciuto a me sino a quel
momento, che si intitola “Storie di Gap” con
sotto titolo “Terrorismo
urbano e Resistenza” edito da Einaudi 2014. Si badi bene, la
pubblicazione è recentissima, il giornale è “La Repubblica” e l’autrice della
recensione è Simonetta Fiori quindi né il giornale né la giornalista né la casa
editrice, possono essere considerati specificamente etichettati come di destra nell’attuale panorama politico
ed editoriale, e questa circostanza è importante ai fini della tesi che voglio
dimostrare. La recensione della Fiori mi appare asettica, con una illustrazione
precisa ed esauriente dei contenuti del libro senza offrire un suo giudizio
soggettivo nel merito dei problemi posti dal libro medesimo. Santo Peli è un
autore che testimonia quanto sostenevo in merito alla crisi delle discipline
storiche e del nesso preciso tra queste e l’esigenza politica di attenuare il
giudizio negativo sul nazismo, tramite una sorta di sterilizzazione dei fatti e
delle tragedie che ha provocato, ottenendo per questa via una qualche forma di sua
oggettiva legittimazione, spostando, e questo è davvero indegno, il mirino
della critica storica su chi il nazifascismo combatté con tutte le sue forze. Intanto
il sottotitolo è già eloquente di per sé: “Terrorismo urbano e Resistenza”. L’associazione del concetto di terrorismo ai
gappisti che sono a tutti gli effetti resistenti e combattenti a pieno titolo,
molti dei quali persino insigniti di medaglia d’oro al valor militare, è un
insulto tanto vile quanto gratuito, spacciato poi per “storia”. Al colmo
dell’insulsaggine, questo autore cerca di giocare sulle parole adducendo a
sostegno della sua tesi aberrante, la citazione di un documento del Corpo Volontari della
Libertà per altro ripetuta in nota al capitolo primo a pag. 27 che definisce i
Gap come “Formazioni
di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica contro i nemici e i
traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del
nemico ecc.”. E qui siamo solo a pag. 7 nell’introduzione. Si tratta
di un meschino gioco di parole, peraltro evidente. C’è una differenza abissale
tra il voler terrorizzare i “nemici e i traditori”, in tempo di guerra e il
terrorismo tout-court, praticato in tempo di pace sia pur relativa, ed uno
storico serio dovrebbe evidenziare tale differenza, non giocarci sopra.Il
terrorismo come è inteso oggi non può essere ricompreso in questo documento
citato del CVL. Sfugge inoltre all’esimio storico che furono proprio i tedeschi
a coniare l’appellativo di terroristi a danno di tutto il movimento partigiano,
senza contare che se si vuol usare il termine nel suo significato più
autentico, bisogna comprendere che tale concetto implica la casualità delle
vittime prescelte, esattamente come è avvenuto in Italia dalla fine degli anni
’60 sino ai primi anni ‘80. Al contrario gli obiettivi dei Gap erano ben
ricompresi in specifiche categorie di persone che praticavano davvero il
terrore sulla popolazione inerme. Così scrivendo il Prof. Peli compie un
radicale quanto clamorosa inversione di giudizio storico sul nazifascismo. Né
tale conclusione si poggia solo sul tratto citato. Infatti egli ribadisce che quello
dei Gap è terrorismo urbano per le
modalità proprie di operare “…… combattono secondo le modalità classiche del
terrorismo, sia con uccisioni mirate di singoli individui sia con attentati
dinamitardi;” Nella
introduzione, inoltre il nostro autore opera una drastica e radicale
contrapposizione tra la situazione in montagna e quella in città, come se lo
stato di guerra fosse diversamente graduabile tra la montagna e le città. Tale
netta divaricazione è strumentale ad una polemica “postuma” per così dire, col
dissolto Partito Comunista Italiano, in cui ho militato per alcuni anni senza
condividere le scelte politiche, come testimonia il mio post su Berlinguer. Ma
la polemica politica è una cosa e la ricerca storica dovrebbe essere altro, ma
non per questo autore. Tali affermazioni presuppongono necessariamente, se la
logica conta qualcosa, che negli anni dal ’43 al 45 in Italia non c’era la
guerra, altrimenti gli atti dei gappisti, coerentemente dovrebbero essere
definiti come atti di guerra, così come è avvenuto sin ora. Solo che per il
Prof. Peli dà conto, a modo suo, del perché sino ad oggi non si è equiparato
l’azione dei gappisti a quello dei terroristi. Infatti scrive, sempre nella
sua introduzione: “i Gap sono organizzati e diretti dal Pci, e dunque restano, durante la
Resistenza e anche nei decenni successivi, connotati politicamente in modo
molto più marcato di quanto accade per tutte le altre formazioni partigiane,
che progressivamente subiscono un parziale processo di fusione nel Corpo
Volontari della Libertà”. Intanto
il già citato documento del CVL smentisce l’estraneità dei Gap, al resto della
resistenza ma la smentisce egli stesso più avanti quando ricorda che altri
partiti e organizzazioni della resistenza collaborarono con i gappisti
quantomeno nel supporto logistico. C’è inoltre un’altra dose di falsità in
queste affermazioni perché è accertato in modo incontestato, neppure dal Prof.
Peli che il Pci fu il principale organizzatore di tutta la resistenza e
notoriamente, le brigate Garibaldi, che combattevano sui monti, erano le più
numerose e combattive. Infatti c’è stato
un lavorio culturale negli anni del dopoguerra per evitare che si affermasse
definitivamente la convinzione per cui il Pci fosse stato l’esclusivo fautore
della resistenza, convinzione assai diffusa e accettata generalmente sia pure
con motivazioni contrastanti. Rimane il fatto comunque che il Pci fu il
principale promotore della resistenza tanto in città quanto in montagna. Ma il
Prof. Peli come dicevo, crea, in modo per me assolutamente antistorico una
scissione drastica oltre il ragionevole quanto afferma, sempre
nell’introduzione che: “..la scelta di combattere per la Liberazione coincide con l’ascesa ai monti, gesto
definitivo e catartico, ingresso in una
nuova vita comunitaria, fatta di <stenti e di patimenti>, e però anche
ricca sperimentazione di una rinnovata dimensione esistenziale e politica” mentre “Le città sono il
luogo della fame, del mercato nero, delle retate improvvise, delle deportazioni
di ebrei e operai, dei bombardamenti.” Ecco dunque come le categorie di una
psicologia di risulta sostituiscono le categorie della storia. Intanto è
privo di significato logico e conseguente l’uso dell’aggettivo definitivo, mentre per il resto di
questa citazione, pare dia l’impressione che la guerra quasi non esiste, quasi
che in montagna ci si andava a fare una scampagnata, o poco ci manca, e sì,
qualche volta si sparvava pure, ma per il resto è tutta una catarsi che fa
stare meglio, e poi c’è, nientedimeno che una vita comunitaria in cui gli
stenti e i patimenti sono messi tra virgolette, a richiamare il ritornello
di uno dei canti partigiani “I ribelli della montagna” le cui strofe iniziali “Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì
su per l’aride montagne/cercando libertà tra rupe e rupe/ contro la schiavitù
del suol tradito” sono
all’epigrafe di questa pubblicazione. Dunque non esistevano i bombardamenti, o
meglio li cita senza mai trarne le logiche conseguenze sulla vita delle
popolazioni italiane. Né si pensi che tali mie conclusioni siano forzate,
infatti i concetti vengono ribaditi sempre nell’introduzione dove si legge
ancora “Che
anche la guerra partigiana in montagna sia di necessità combattuta con un
susseguirsi di imboscate, di agguati e precipitose ritirate, poco importa; in
montagna si fa vita collettiva, si dibatte, si scrivono giornaletti, si
sperimentano nuove forme di partecipazione alle decisioni. Le bande partigiane,
almeno tendenzialmente .. sono aperte a tutti, a prescindere dalle adesioni un
partito (e del resto all'inizio sono ben pochi partigiani con una sufficiente
alfabetizzazione politica). Nulla di tutto ciò può accadere nell'organizzazione
e nella pratica della lotta armata in città: né lo consentono le regole della
clandestinità e la stretta dipendenza dal partito comunista.” Ecco il
punto dolente del Prof. Peli, ossia la polemica con il Pci, come presupposto
costante di tutto il libro. Sembrerebbe, a leggere queste righe che la “stretta
dipendenza dal partito comunista” sia un che di settario, quasi che ad altri
fosse preclusa la partecipazione alle attività dei Gap, o che il Pci medesimo
in quegli anni fosse in grado di precludere ad altre formazioni della
resistenza l’attività di guerra partigiana in città. Circostanza neppure vera
in toto, perché vi fu come, ribadisco, come dirà chiaramente più avanti oltre
lo stesso Peli, la collaborazione di altre formazioni della resistenza.
Comunque si potrebbe operare una interpretazione del pensiero di questo autore
con la banalissima applicazione della proprietà transitiva, per cui se i
gappisti furono terroristi, e se i gappisti erano rigorosamente communisti, il
Pci medesimo fu terrorista. Uno dei problemi di fondo di questo autore, continuo
a ribadire, è quello di anteporre le sue convinzioni ideologiche all’analisi
dei fatti, e per illustrare meglio tutto ciò ricorro alle sue stesse parole.
Qui siamo al capitolo primo a pag. 15: “I comunisti, da subito, optano per un modello basato
sulla guerra per bande, sull’esempio jugoslavo, che prefigura una lotta di
popolo; i dirigenti del Pda (partito d’azione) o almeno parte di essi
(Ferruccio Parri in particolare) preferirebbero la creazione di un esercito più
tradizionale, guidato da quadri militari professionali. Il primo modello
rimanda a una idea di popolo in armi e dunque anche a una vasta mobilitazione
politica che affida ai partiti un ruolo centrale; il secondo modello continua a
privilegiare la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di
Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”. Qui l’interpretazione
si fa ardua, perché sulla base di quanto scrive in questo libro non è chiaro
cosa voglia dire. Cerco di analizzare: Ferruccio Parri fu il principale
esponente delle brigate di Giustizia e Libertà, che si ispiravano al Partito
d’Azione che erano organizzate alla stessa stregua delle brigate Garibaldi che
erano dirette dal Pci e dai socialisti. Ora è assolutamente comprovato che anche
Ferruccio Parri, a tutto ammettere, fece di necessità virtù e si adeguò, nel
migliore dei casi al reclutamento di civili ispirati da idealità politiche, né il
Prof. Peli nega la circostanza, al contrario, altrove in questo libro lo dice
chiaramente. Quindi il tratto citato è privo di senso, a meno che l’autore non
voglia alludere alla nota questione dell’ “attendismo”,
termine usato storicamente, per alludere a posizioni politiche e militari presenti
nella resistenza, soprattutto nel
Partito d’Azione, secondo cui la lotta partigiana dovesse svolgere un ruolo di mero
supporto alla forze alleate, attenersi alle loro direttive, senza darsi una
propria e autonoma strategia e quindi
limitarsi ad “attendere” l’arrivo degli alleati. Solo che, se di questo si
tratta, non si capisce perché il Prof. Peli non si richiami esplicitamente alla
tale circostanza, o meglio, una supposizione posso farla, e consiste nel
ritenere che egli preferisca connotare come dato “storico”, esito attuale delle
sue personali ricerche, quella che era un’opzione politica soggettiva poi
rivelatasi come minoritaria, presente nel dibattito resistenziale ab illo tempore. Miseria della storia
postmoderna. La convinzione per cui la guerra la debbano fare solo gli eserciti
regolari, è propria di Santo Peli e il passo citato credo conferisce a tutto il
libro una cifra intellettuale davvero bassa. Di più, né i tedeschi né gli
alleati sopportavano che gli italiani avessero un loro esercito, tant’è che i
tedeschi preferivano che i giovani italiani lavorassero per loro anziché
combattere al loro fianco, per cui i loro rastrellamenti erano finalizzati
appunto alla produzione e non all’arruolamento militare alla Repubblica Sociale
di Salò. Anche gli alleati, dopo svariate insistenze del governo italiano
consentì la formazione di un esercito ma a condizione che dipendesse
esclusivamente dai loro comandi, tant’è che dopo l’episodio di Montecassino, fu
spostato in Gran Bretagna per partecipare allo sbarco in Normandia. L’esercito
italiano, quello che dipendeva da Badoglio e dal re, non per colpa sua, lasciò
che Roma cadesse in mani tedesche tranne la reazione eroica e spontanea della divisione
“Granatieri di Sardegna” insieme ad una parte della popolazione. Insomma lo
stato italiano nel periodo storico di cui trattiamo non c’era in alta Italia e
non poteva esserci, di conseguenza il Prof. Peli fa una polemica del tutto
strumentale di infimo livello. Del resto
non sarebbe una posizione originale, ma tanto vale esplicitarla in un altro
tipo di pubblicazione, senza bisogno di dare del terrorista a persone come
Giovanni Pesce, come tutti gli altri gappisti che furono quadri politici prima di
tutto e non assassini a sangue freddo, come vuol fare intendere. Comunque
chiudo qui le riflessioni sulla “raffinatezza” del prof. Peli circa i criteri
che privilegiano “la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di
Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati”, di cui sopra. In
realtà il Prof. Peli pensa che la resistenza non andava fatta. Il pensiero può
pure avere una sua logica, solo che va rappresentato per quello che è, ossia un
pensiero del prof. Peli, neppure tanto profondo, se mi è consentito, che con la
ricerca storica ha poco a che spartire. Nel primo capitolo, proseguendo nella
analisi del testo, sostiene che nelle città non c’era in effetti nessun bisogno
di fare resistenza perché i tedeschi erano buoni o meglio, udite udite, erano
cattivi solo in montagna. Infatti cita la strage di Boves, del 19 settembre
1943, come strage gratuita, ma siccome la notizia non si era diffusa
rapidamente nelle città, in esse si respirava un’aria tranquilla. Da non
crederci ma è proprio così. Ora a parte la contraddizione in cui cade senza
neppure rendersene conto il Prof. Peli quando dà conto della strage di Boves in
montagna, con la tesi precedente che ho riportato integralmente circa quella
sorta di levità che egli attribuisce
alla scelta di andare a combattere i tedeschi in montagna, dove, ora lo
ammette, non è che ci fosse tanto di che fare catarsi e scrivere giornaletti
come se non ci fosse nulla di autenticamente drammatico. Comunque, udite
ancora, “….
la percezione della brutalità dell’occupazione tedesca e della guerra civile a
essa strettamente intrecciata non è chiara, nelle città, fino a quando non
iniziano gli attacchi gappisti. I comandi militari tedeschi nelle città tengono
un profilo, se non conciliante, in generale alieno dal prendere drastiche
misure d’ordine pubblico, a meno di essere direttamente attaccati, mentre
rispondono con ferocia annichilente alla formazione dei primi nuclei partigiani
in montagna”. Si scopre così che i tedeschi furono concilianti,
seppure limitatamente alle città. Ma si badi al linguaggio. Le attività dei
tedeschi, ossia deportare ebrei e lavoratori, per sua stessa ammissione, è ricompresa
nella categoria dell’“ordine pubblico”, e le atrocità tedesche le connette con
la guerra civile. Insomma la resistenza fu anche per il prof. Peli una guerra
civile. Tesi non certo originaria e tuttavia infondata. In Spagna, tanto per
capirci, ci fu vera guerra civile, per ovvie ragioni, ma nel resto d’Europa, a
partire dal 1939 ci fu una guerra mondiale, ed è il concetto di guerra mondiale
che il prof. Peli proprio non accetta. Medesimo discorso fa questa corrente di
pensiero, di cui evidentemente il nostro autore è solo un esponente, a
proposito delle foibe. Quasi si rimuove la circostanza della guerra e si
attribuisce alla resistenza comunista la responsabilità delle tragedie
accadute. Tornando al testo voglio ripetere il concetto per cui la deportazione
di ebrei e lavoratori erano sostanzialmente legittime per il prof. Peli, e tali
da non creare tragedie per la popolazione. Ora se così fosse non si
comprenderebbe perché i napoletani insorsero tra il 27 e il 30 settembre 1943, cacciando i tedeschi prima dell’arrivo degli
alleati, e perché alcuni giorni prima pure i romani insorsero seppure con esiti
diversi. Il punto mi pare questo. Il prof. Peli ritiene sostanzialmente
legittime, tollerabili e tollerate le attività tedesche nelle città se non
fosse per l’azione dei Gap, che non a caso prima ha dichiarato essere
terroristi. Infatti c’è un paragrafo del primo capitolo che recita proprio così
a pag. 22: “Creare
un’atmosfera di guerra” . Qui
torna un uso spietato e violentissimo delle parole. Vi immaginate se tra
bombardamenti, razionamento alimentare, rastrellamenti per deportare ebrei e
lavoratori, nelle città italiane, con la popolazione che pativa l’assenza di
notizie sui loro cari dal fronte, o di notizie tragiche, ci fosse bisogno di
creare artificiosamente un’atmosfera di guerra?. Ebbene, la risposta per il
prof. Peli è positiva. La guerra in città la portarono i Gap, e se credete che
sia una mia forzatura polemica leggete quanto scrive lo stesso autore a pag.
20: “inizialmente
sono soprattutto i fascisti a imporre ed eseguire le rappresaglie in città, e i
tedeschi nicchiano, forse consapevoli che i Gap sono lo strumento scelto per
creare l’atmosfera di guerra, che è contraria al loro desiderio di sfruttare le
risorse industriali e la forza lavoro concentrata nel triangolo industriale col
minor dispendio di energie. Perseguendo questo scopo, l'esercito occupante
inizialmente sarà piuttosto restio a ricorrere a misure repressive molto dure,
che avrebbero, tra l'altro, l'effetto di rendere ancora più complicato lo
svolgersi delle attività produttive, alle quali tedeschi sono massimamente
interessati. Anche l'allungamento del coprifuoco, o il divieto di transito per
le biciclette, sono risposte agli attacchi del Gap prese controvoglia, che gli
occupanti vorrebbero evitare se appena possibile. La percezione della barbarie,
della brutalità del << nuovo ordine>>, e dunque affievolita sia
dalla sapiente regia tedesca, capace di atteggiarsi come ragionevole e
lungimirante freno alla truculenze del fascismo repubblichino, sia dalla
specifica condizione di una nazione che per vent'anni di fascismo hanno abituato
alla prima azione di ogni forma di libertà, all'assenza di ogni certezza del
diritto.” Riepilogando quanto si evince esplicitamente
sin qui per il Prof. Peli i tedeschi erano cattivissimi in montagna, e buoni in
città al punto che la popolazione apprezzava lo stato di cose e il coprifuoco
non era connesso ad una situazione di guerra come i bombardamenti, ma a una
questione di ordine pubblico. Insomma i tedeschi come Giano bifronte, mentre i
fascisti italiani erano cattivi sia in città che in montagna, e i tedeschi
svolgevano un ruolo di freno su di loro. Ora, sdiamo di fronte ad una
falsificazione storica evidente. Al di là degli episodi specifici cui si fa
riferimento nel libro, sul piano generale i fascisti erano del tutto subalterni
ai tedeschi, e tutto il loro operare era funzionale ai loro interessi, senza
nessuna possibilità di scelte autonome. La Repubblica Sociale di Salò era una
mera propaggine della Germania hitleriana, non a caso furono i tedeschi a
liberare Mussolini dalla restrizione sul Gran Sasso ad opera delle autorità
dell’Italia monarchica, e lo insediarono con un potente rafforzamento della
loro presenza militare nell’Italia del centro nord, e giunsero ad annettersi
direttamente dal 1° ottobre 1943, le provincie di Trieste, Friuli, Gorizia,
l’Istria, per non parlare del già tedeschizzato Alto Adige, esautorando del
tutto le autorità italiane. Come giustamente rilevano Salvatorelli e Mira,
storici di tutt’altra forza rispetto al Prof. Peli, Mussolini accettò
passivamente la decisione tedesca a riguardo la cessione di territori per la
cui annessione si era battuto e che fu motivo non secondario della sua ascesa
al potere nel ’22. (Confr. “Storia d’Italia nel periodo Fascista” di
Salvatorelli e Mira, ed. Mondadori 1969 pag. 558, secondo volume). Insomma, sul
piano generale una separazione di responsabilità tra tedeschi e fascisti in
merito alle atrocità della guerra non è possibile. Concludendo i fascisti
italiani, autonomamente, non avrebbero avuto la forza necessaria per compiere
le efferatezze che commisero, e il dato è universalmente accettato e non
contestato neppure dal Prof. Peli, la cui ricerca si applica su dettagli, e la
natura di questi dettagli non è tale da invertire il giudizio storico generale
consolidato sin qui, come invece il nostro autore cerca di fare.