lunedì 23 maggio 2016

Renzi, Berlinguer e la “questione morale”



“La questione morale” è nata, in quanto specifica riflessione politica così denominata, da una famosa intervista, ancora oggi citata, rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 sul quotidiano “La Repubblica”. Berlinguer all’epoca era segretario (terzultimo, se ben ricordo, dopo di lui Alessandro Natta e Achille Occhetto) dell’ormai disciolto Partito Comunista Italiano, a sua volta erede del Partito Comunista d’Italia,] fondato a Livorno nel 1921 da un gruppo di personalità dissidenti dell’allora Partito Socialista, comprendente tra gli altri Amedeo Bordiga (segretario della neonata formazione) e Antonio Gramsci. Certo costoro sono personaggi che, fosse possibile, si starebbero rivoltando nella tomba come si usa dire in questi casi. Ora, la questione morale, l’ha ripresa pure Renzi in un’altra intervista rilasciata su Rai3 al conduttore di “Che tempo che fa” l’8 maggio ’16, Fabio Fazio. Diciamolo francamente, tra i due interventi, Quello di Berlinguer e quello di Renzi non ci sono confronti possibili. Tanto era colto, sottile, articolato, seppur profondamente manipolatorio quello di Berlinguer, quanto tronfio, intriso di bugie elementari prive perfino di qualsiasi doppiezza politica, sintomo solo di plateale ignoranza e arroganza quello di Renzi. Bontà sua costui ammette l’esistenza di una tale angosciante questione anche nel suo Pd, che, in fondo in fondo, sarebbe l’erede di quel Pci di cui era segretario proprio lo stesso Berlinguer, quasi a dimostrare, ove ve ne fosse bisogno, che con quella intervista non vi fu nessun progresso nella lotta alla corruzione, al contrario la situazione è precipitata proprio in quel partito, non a caso direi. Infatti quella intervista di Berlinguer, a mio parere, fu una operazione sottile, ma generalmente percepita come l’esatto contrario di quella che fu realmente. Ormai da tempo viviamo in un mondo di pazzi, come dice una mia buona amica, altrimenti non si spiega il valore attribuito a questa intervista. Davvero credo che ci volesse una mente sottile come quella di Berlinguer per stabilire che il fenomeno della corruzione pone un problema “morale”, perché a lume di naso, soprattutto se parliamo di personaggi pubblici, sindaci, amministratori, eletti a qualsiasi titolo, il problema va oltre, molto oltre, soprattutto se la questione della corruzione e dei rapporti tra politica e grande criminalità è in Italia, endemica, e oserei dire, a costo di litigare con madre lingua, storicamente endemica. Nel caso in discussione non si può parlare di una questione semplicemente morale, ora come allora, ossia di costume, (se ben ricordo l’etimologia latina del termine riporta proprio al concetto di costume), ma va ben oltre. Berlinguer doveva saperlo bene, ma il suo problema era proprio questo, derubricare in capo alla DC l’accusa di essere il perno, l’asse portante, la costante garanzia di impunibilità della corruzione per effetto perfino evidente alle cronache del tempo, di una collusione con la grande criminalità in Italia, così come era nella vox populi della sinistra di allora, sostanzialmente coincidente con la base, e l’elettorato del Pci. In sostanza, con quella intervista, Berlinguer abilmente, con un linguaggio forbito e appropriato dice una cosa per intenderne un’altra. In quella intervista egli mette in capo alla Dc certamente delle responsabilità, ne fa una questione quasi meramente quantitativa. Nella Dc sembrava volesse dire Berlinguer, vi erano più casi di corruzione di quanti se ne potessero contare nel Pci, relegabili a una questione di passione politica declinante, (Il Pci all’epoca era effettivamente più pulito) ma era una responsabilità morale, quasi casuale appunto, non politica, non economica, non intrinseca al sistema di dominio delle classi dirigenti in Italia, non frutto di lucide scelte politiche. Con quella intervista Berlinguer intendeva avviare una sorta di omologazione del PCI con i partiti di governo, in grado di rapportarsi “civilmente” con la medesima DC, che, si badi bene, non andava scalzata, ma legittimata anche agli occhi del suo elettorato. Il Pci insomma, anche agli occhi dei suoi militanti, doveva diventare un partito tra gli altri, non il Partito per eccellenza, così come era concepito sino ad allora, ossi il partito della classe operaia destinato, sebbene a nessuno ormai fosse chiaro come, a instaurare il socialismo in Italia. Tant’è che fu in quel periodo che cambiò una tradizione che voleva che gli eletti del PCI nelle varie istituzioni, fossero bloccati, ossia messi in cima alla lista dei candidati, con la consegna, nelle sezioni di esprimere solo per loro il voto di preferenza. Va da sé che i singoli candidati, in queste condizioni rispondevano del loro operato nelle istituzioni solo al partito che tra l’altro si faceva carico dei costi di tutta la campagna elettorale. Proprio durante la segreteria Berlinguer questa tradizione fu superata e i singoli candidati potevano farsi una campagna elettorale autonoma, anche a proprie spese, anche in concorrenza con i colleghi di partito, col risultato che, ovviamente gli eletti cambiavano natura. Per questa via entravano in una vera e propria carriera, alla stregua di quella percorribile in un apparato amministrativo qualsiasi, in cui si era indifferenti alla autentiche questioni politiche. Indovinato a tal proposito il termine casta dal fortunato libro di Sergio Stella e Gian Antonio Rizzo. Il loro operato, quello degli eletti nelle istituzioni, era rivolto e lo è ancora oggi e in misura assai maggiore di allora, essenzialmente e prioritariamente a tutelare i propri personali interessi, che erano essenzialmente clientelari, ma sicuramente poco attenti a battaglie moralizzatrici, perché ormai prendeva corpo il fenomeno del ceto politico come corpo sociale a sé stante, politicamente trasversale, separato dal resto della società e con regole omertose al proprio interno. Insomma l’onestà in politica smise di essere un valore anche nel Pci. Il significato ultimo di quella famosa intervista di Berlinguer consiste nel far cessare la corruzione medesima come un punto dirimente nei rapporti Dc-Pci. Con essa il Pci abdicava alla lotta alla corruzione come fatto intrinsecamente politico, per ridurla appunto ad una questione morale, sostanzialmente interna ai singoli partiti. Infatti di lì in poi è successo che quel mondo di sinistra si sia andato progressivamente sfaldando sino alla completa omologazione con le classi dirigenti anche sul piano della corruttela. Non a caso Renzi, che di quella tradizione dovrebbe essere l’erede, anche se fa di tutto per liberarsene, ammette che nel suo Pd vi è una questione “morale”.  La portata della parola nelle due interviste però è la medesima. Si dice morale per non dire che si tratta di scelte politiche precise. Innanzitutto il problema della moralità, per ciò che riguarda Renzi, se proprio si vuole accettare la definizione, attiene a scelte di governo tanto quanto a quelle di partito, e riguardano precisamente le sue scelte.  Infatti mi chiedo quale significato morale abbia la questione del sostegno a spada tratta ad un personaggio come Vincenzo De Luca in capo alla regione Campania. Il problema, a dispetto di ciò che dicono alcuni commentatori dall’aria di “sinistra” non è solo di quantità di voti, altrimenti non si comprende la vicenda delle primarie napoletane del Pd, truccate a danno di Bassolino e a favore della Valente. Non si può pensare che costei prenda più voti di Bassolino, solo che è più fedele a Renzi. Questa vicenda, il cui protagonista principale è sicuramente Renzi, non può, almeno credo, essere sia un esempio di moralità. Mi chiedo ancora che significato abbia nominare il Gen. Toschi a comandante della Guardia di Finanza. Per gli amici che non abbiano avuto modo di seguire la vicenda riporto per intero l’art. de “Il Fatto Quotidiano” di Mercoledì, 4 maggio 2006 di Marco Travaglio:
“Gentile presidente Mattarella, scrivo a Lei perché -pur dissentendo su alcune sue parole molti suoi silenzi-apprezzo i suoi appelli sulla corruzione. È soprattutto perché tocca a lei firmare o respingere il D.p.r. con la nomina fra gli altri del generale Giorgio Toschi a comandante della Guardia di Finanza, dopo aver espresso più di una riserva al premier Renzi, che naturalmente se n’è infischiato. Perciò le segnalo l’articolo di Ferruccio Sansa sul Fatto di ieri. Racconta di un’indagine per concussione della procura di Pisa a carico di Toschi-allora capo delle Fiamme Gialle pisane-chiusa nel 2002 con un’archiviazione imbarazzante (sia per i magistrati, sia per l’ex indagato). Di quell’inchiesta si parlava da tempo, ma nessuno è ancora riuscito a mettere le mani sulle carte. Fermo restando che nulla di penalmente rilevante può essere contestato all’alto ufficiale, i fatti accertati dal PM che ha deciso di non processarlo (mentre ha ottenuto il giudizio e la condanna di vari sottoposti per mazzette in cambio di verifiche fiscali addomesticate o inesistenti) pongono problemi etici, deontologici e di opportunità. L’allora procuratore Enzo Iannelli scrive di aver raccolto “sospetti e indizi” che non paiono sufficienti per esercitare l’azione penale contro Toschi. Un suo maresciallo raccontò a un commilitone che il comandante concludeva imprenditori conciari del cuoio o se ne faceva corrompere con “somme di denaro”, dopo aver dato “disposizione” ai sottoposti di dispensarli dagli accertamenti. I due sottufficiali conservano le lenti delle ditte produttrici o concussione che andavano esentate dalle verifiche. Un altro maresciallo si sentì dire da un imprenditore, al cambio della guardia del comandante: “speriamo che questo nuovo sia meglio del primo non detta le azioni illecite dal precedente”, cioè di Toschi. E, citando le testimonianze di quattro colleghi, raccontò che Toschi “tutti i lunedì di ogni settimana presso la Brigata amministrativa cambiava banconote vecchie con banconote nuove”. Il sabato invece-secondo un’altra fonte-un maresciallo li portava i soldi versati dagli imprenditori “tenuti fuori dalle verifiche”. Lei sa, Presidente, se il generale ha mai querelato per calunnia i suoi accusatori? Toschi-aggiunge il pm-acquistò pure tre Mercedes in quattro anni a prezzo “particolarmente favorevole”, con un “mancato guadagno per la concessionaria è un correlato di risparmio” per sé di 21 milioni e rotti di lire in tutto. Ed era solito effettuare “versamenti in contanti” in banca (“sette da 5 milioni” solo tra marzo e settembre 1995), mentre prelevava pochissimo denaro per mantenere la famiglia (10 milioni di lire nel 1991, 4,3 nel 1992, 4,5 nel 1993, 7,4 nel 1994 e 6,2 nel 1995). Nel suo quinquennio a Pisa, i pm hanno accertato che “gli imprenditori della zona del cuoio non hanno avuto, tranne rare eccezioni, verifiche fiscali a carattere generale”. Dulcis in fundo, Toschi “aderiva all’invito a cene organizzate da imprenditori della zona del cuoio, notoriamente produttori di fatturato in nero”, ovviamente risparmiati da accertamenti. Negli stessi anni, anche per molto meno, il pool Mani Pulite fece arrestare e condannare un centinaio di finanzieri, dal comandante Cerciello all’ultimo maresciallo. A Pisa invece tutto archiviato perché, scrive il pm molto spiritoso, gli “indizi e sospetti” di concussione sono “passibili, in astratto, di spiegazioni alternative” alle banali mazzette. E quali, di grazia? “Il possedere moneta cartacea nuova di zecca potrebbe corrispondere a un “vezzo” o a un bisogno soggettivo dell’interessato scambiatore”. Non è meraviglioso? Un generale della GdF col “vezzo” dei contanti e delle banconote fresche di stampa: un collezionista che ne annusa il profumo. E le cene? Un “imprudenza”. E le mancate verifiche? “Programmazione negligente, contrari a criteri di opportunità per nulla collegata a uno scambio di denaro “. L. tre Mercedes a prezzi stracciati? “Rientravano nella fisiologia commerciale”. E come spiegare i versamenti in contanti, seguiti da scarsi prelievi, indice di un abnorme disponibilità di cash? Ma naturalmente con la “possibilità di disponibilità economiche provenienti dalla famiglia originaria, del tutto benestante” (eredità? Paghetta? Il pm non allega alcuna documentazione) è-si tenga forte presidente-con “un’accentuata disponibilità a risparmio “. Ecco: un generale che preleva 4 milioni l’anno per mantenere la famiglia deve essere per forza un grande risparmiatore, anche perché le auto erano a metà prezzo è le cene le pagavano gli imprenditori. Ferma restando l’archiviazione penale, dinanzi a un quadretto così edificante, in un paese almeno decente scatterebbe un procedimento disciplinare per mettere da parte l’alto ufficiale. Sempreché l’interessato non sentisse il dovere di dimettersi. Invece toschi ha fatto carriera, quasi sempre nella Toscana di Renzi, sempre all’ombra del gen. Adinolfi, grande amico del premier. Alla luce di questi fatti, signor Presidente, non ritiene opportuno rispedire al mittente il d.p.r. che la nomina a comandante generale? In caso contrario, cosa penserà un cittadino che si vede entrare in casa la Finanza? È cosa penserà un onesto finanziere che ogni mattina va a controllare se i contribuenti pagano le tasse e deve a destarli se fanno 1/10 di ciò che ha fatto il suo capo? Tra le sue riserve sulla nomina di Toschi, c’era per caso quell’indagine? Le risulta che Renzi la conoscesse? E, se sì, ha promosso Toschi nonostante questo, o proprio per questo?.  
La vicenda è caduta in silenzio assordante, a cominciare da quello degli altri media, eppure il caso mi sembra eclatante. Se Fabio Fazio fosse stato una persona moralmente corretta, avrebbe dovuto porre quesiti del genere, nella intervista già citata, invece niente. Sempre nella stessa intervista Renzi ha fatto di più. Dopo aver argomentato sulla sua intenzione di non voler polemizzare con i magistrati ha affermato letteralmente, a proposito della distinzione istituzionale dei ruoli: “Io faccio le leggi e loro le applicano” così chiarendo in modo tanto involontario e quanto, proprio per questo incontrovertibile, la sua concezione del parlamento e dei parlamentari, anche quelli del suo partito. Non contento ha confuso il 416bis, articolo che riguarda l’associazione mafiosa, con il 41bis che riguarda il regime di detenzione penitenziaria il cosiddetto carcere duro normativa non toccata dal suo governo nonostante si sia vantato del contrario. Per non parlare degli strafalcioni di storia. Raffaele Licinio, storico di spessore, lo ha giustamente rilevato in un suo post su Fb.  Ha dichiarato, Renzi sempre nella intervista da Fazio, che il passo del Brennero fu teatro della più grande stage di combattenti della 1° guerra mondiale, mentre notoriamente, all’epoca il Brennero non era zona di confine, ma territorio austriaco e relativamente lontano dal fronte. Fu investito dai combattimenti solo verso la fine del conflitto all’esito della avanzata italiana dopo la vittoria sul Piave. Insomma Renzi dice sciocchezze in libertà senza che nessuno abbia il coraggio di fargliele notare. Al contrario Eugenio Scalfari ha avuto il coraggio di dire in un suo editoriale su “La Repubblica” che è stato magnifico e che ha convinto molti italiani e votare al referendum sulla riforma costituzionale secondo i suoi desiderata.   In questo contesto di bugie Renzi ha ammesso l’esistenza di una questione morale nel Pd, ma la più grave di tutte riguarda proprio la sua persona nonché del suo cerchio magico.

mercoledì 4 maggio 2016

1° Maggio, 25 Aprile, e la resistenza tradita. Oltre il 1° Maggio



C’è un tempo per tutto, e le ricorrenze hanno un loro significato e, in genere è bene che ci siano. Il problema è se queste ricorrenze debbano dare luogo e delle “feste”, ed io sono convinto che questo non sia il tempo delle feste. E’ già passato il 1° Maggio, ma decisamente il lavoro oggi in Italia ha assolutamente poco da festeggiare. Esso tende a trasformarsi in una schiavitù di fatto, anzi in alcuni casi il processo è già compiuto senza neppure la garanzia dalla fame e dalla malattia. Davvero non trovo che vi sia nulla da festeggiare, e conseguentemente trovo fuori luogo i concerti e i “concertoni” che i sindacati unitariamente organizzano, anche ora che “unitariamente” non fanno più nulla, salvo le ultimissime iniziative. Faccio salvo da queste critiche il concerto di Taranto, nato proprio per contestare lo spirito di quello “ufficiale” di Roma. E se devo essere sincero credo che i sindacati così come sono stati sin ora siano uno strumento inadeguato. Serve organizzare solidarietà e lotta. Le lotte hanno un costo i cui benefici ricadono su tutti ma i costi solo su chi lotta, e non può più essere così, in oltre non possono più essere simboliche, devono continuare sino a quando l’obiettivo non si raggiunge. Credo che ora si sia lontani da ciò, mancano anche delle fondamentali premesse politiche.  Ma questo è solo un esempio dei problemi che pone oggi una ripresa efficace delle lotte del lavoro. Poi ci sono le prospettive organizzative e politiche che vanno rielaborate in funzione delle situazioni date. Serve unità effettiva e una organizzazione che comprenda al suo interno i braccianti immigrati e schiavizzati, i giovani, vittime del precariato in tutte le sue forme, oltre alle categorie di lavoratori che già hanno una tradizione di sindacato, sebbene ora il sindacato rappresenta una minima parte dei lavoratori, e non a caso. Quindi trovo che ci sia davvero poco da festeggiare il 1° maggio di questi tempi se non per il fatto che sui media si parla di lavoro per la circostanza. Se ne parla poco e malissimo, ma intanto se ne parla. Allora preferisco parlare ancora del 25 Aprile. Anche questa pare sia una festa, anche se, va detto, l’aspetto festaiolo incide assai poco sulle iniziative che si prendono per la ricorrenza. Si sono svolte ancora cortei e molte iniziative. A dire il vero c’è un impegno crescente a svuotare ulteriormente una ricorrenza già ampiamente ridimensionata nel corso del tempo. Comunque c’è una tradizione in queste manifestazioni che la tiene comunque viva, ed è bene mantenerla. Vi è stata anche, il 24, un giorno prima perfino una manifestazione dei reduci di Salò, svoltasi regolarmente senza che nessuna autorità abbia sentito il dovere di interromperla e denunciare i partecipanti, il fatto che siano stati per lo più anziani e reduci non deve essere una scusante. Magari non li si manda in galera, ma un certo fastidio che ricordi che queste manifestazioni non sono lecite andrebbe arrecato anche a loro. Poi c’è stato qualche sindaco leghista che ha fatto deliberare perfino il divieto alla banda del comune di suonare “Bella Ciao”, e a qualche altro ha fatto senso che la banda di Milano suonasse “l’Internazionale”. Di questo passo, tra poco ci racconteranno che la resistenza l’hanno fatta Bossi e Maroni, magari con il supporto di qualche “ ’ndranghetista” amico loro. Anche, in questa occasione si è dimostrato che l’apologia di fascismo, sebbene formalmente reato, è di fatto largamente consentita. A Predappio c’è un museo dove ogni anno si commemora il duce e la Repubblica di Salò, cosa che trovo un abominio da non potersi giustificare neppure con una generica nostalgia del ventennio mussoliniano. Mi illudo ancora che tutte le persone dotate di normale buon senso convengano su questo. Meglio a Napoli, dove si è opportunamente associata la ricorrenza alla protesta contro la camorra e dove si è allontanata la candidata del Pd alle prossime elezioni comunali. E’ giusto che cerchi altrove i suoi voti. Ciò premesso bisogna poi ammettere che, dalla maggior parte della popolazione italiana questa ricorrenza non è sentita. L’antifascismo non è un valore per la maggior parte di noi. Se si dovesse fare una inchiesta sociologica seria sulla totalità della popolazione riscontreremmo questo tipo di carenza ancora oggi. Nel passato invece gli esiti delle elezioni politiche del ’48, danno una idea chiara dei rapporti tra gli italiani e la guerra di liberazione. Pare che essa sia appartenuta solo a chi l’ha fatta, mentre chi ne ha tratto evidenti benefici, pur senza sparare un colpo, prende le distanza, come da cosa che non lo tocca da vicino. Certo il ’68 ha contribuito a rinforzare il senso dell’antifascismo, ma ciò nonostante questa battaglia non è mai stata vinta, né credo, a questo punto, lo sarà mai. La Costituzione che scaturì dall’antifascismo, già mai applicata integralmente, è stata stracciata da un presidente del consiglio, spero in modo non irreversibile, che assomiglia molto di più alla caricatura che ne fa Crozza che ad una persona reale. Renzi ha il portamento, l’eloquio, l’approccio comunicativo, proprio di un bulletto di periferia. La sua cultura non va oltre questa dimensione psicosociale, e se vogliamo attribuirgli un riferimento politico, è proprio quello di Mussolini; un uomo solo al comando con una differenza a suo svantaggio. Renzi sceglie collaboratori che sono dei semplici yes man senz’anima e senza nessuna ipotetica autonomia, mentre i più fedeli collaboratori di Mussolini, sono stati fucilati o comunque condannati a morte in seguito al terribile processo di Verona del gennaio 1944. Insomma, nessun giglio magico defenestrerà Renzi, il gran consiglio del fascismo era meglio. Loro avevano una statura politica perfino superiore. Del resto neppure Renzi ha quella di Mussolini: è proprio vero che le tragedie, nella storia, si ripropongono in forma di farsa.  Infatti il nostro bulletto è sempre in giro a propagandare sé stesso, molto più di un piazzista di professione, e c’è da chiedersi quando trovi il tempo di leggersi qualche carteggio. E’ evidente che delega ad altri yes men culturalmente dotati quanto lui l’attività che dovrebbe essergli propria, col risultato di avere una produzione legislativa anche formalmente scadentissima, in un campo in cui forma e sostanza si identificano perfettamente. Basta leggersi gli articoli della riforma costituzionale che riguardano le funzioni del nuovo senato, o il provvedimento che acclude il pagamento del canone Rai alla bolletta dei consumi di elettricità, criticato perfino dal Consiglio di Stato, che non è certo un organismo contrassegnato da pregiudizio nei confronti di chi governa. Assai seria è la questione della riforma istituzionale, che è effettivamente orientata alla legittimazione dell’ ”Uomo solo al comando”. Non so formulare nessuna critica a riguardo senza pensare ad un intervento di Aldo Giannulli, in forma di lettera al ministro Boschi pubblicata da il “Fatto Quotidiano” di domenica 27 luglio 2014 pag. 4 che riporto integralmente:
“Onorevole ministro, Ella ha negato che le riforme istituzionali in corso d’opera (in quel momento) costituiscono una svolta autoritaria. Non sarebbe la prima volta, che da una norma costituzionale sbagliata seguano conseguenze gravi ed estranee alla volontà del legislatore: sicuramente i costituenti di Weimar che inseriscono lo stato d’eccezione, non immaginavano l’uso che ne avrebbero fatto i nazisti 12 anni dopo. Il rischio insito in questa riforma è lo smantellamento delle misure a protezione della Costituzione volute dai costituenti: il sistema elettorale proporzionale (sottinteso dal testo) il bicameralismo perfetto con la diversa base elettorale tra le due Camere, l’integrazione del collegio elettorale del presidente della Repubblica con i rappresentanti regionali, l’istituzione di un giudice di legittimità costituzionale, le maggioranze richieste sia per l’elezione del Presidente quanto dei giudici della Consulta, nonché per i processi di revisione costituzionale costituivano un insieme organico di norme a tutela dei meccanismi di controllo e garanzia della Repubblica. E questo per evitare il rischio di concentrare il potere nelle mani di un solo partito da cui sarebbe nato un regime. Da circa vent’anni è iniziato un processo di “mutamento costituzionale a rate” che ha finito per smantellare quell’accorta architettura. Di fatto, è con il passaggio dal proporzionale al maggioritario che è venuta meno la principale garanzia. Nel ventennio appena trascorso è passato il costume, sconosciuto in passato, delle riforme Costituzionali unilaterali, decise dalla sola maggioranza. In nessun sistema basato su una legge elettorale maggioritaria, il processo di revisione costituzionale è affidato al Parlamento, ma si prevede l’intervento del Capo dello Stato o dell’equivalente della consulta o dl referendum popolare. Ora, la riforma in corso di discussione travolge anche questi residui paletti, lasciando sol quello tenuissimo, della prassi costituzionale. Con la riduzione del senato a 95 membri, il parlamento in seduta comune passa da 1008 membri (più gli ex presidenti) a 725, per cui la maggioranza assoluta dei votanti, scende da 505 a 363 voti. Considerando che l’Italicum prevede un premio elettorale di 354 seggi per il vincitore si ricava che bastino solo 9 senatori per assicurare al partito di governo il potere di eleggere da solo tanto il presidente della Repubblica quanto i giudici costituzionali. Il Capo dello Stato, a sua volta, ha il potere di nominare altri 5 giudici che garantirebbero una maggioranza precostituita nella corte dei giudici di ispirazione governativa. Con la stessa maggioranza potrebbe essere messo in stato di accusa il Presidente che, quindi, si troverebbe a dipendere totalmente dalla maggioranza, perdendo la sua terzietà. La stessa nomina dei senatori non più a vita ma per sette anni (come il mandato presidenziale) li configurerebbe come una sorta di “gruppo parlamentale del Presidente” da affiancare alla maggioranza. Certo le leggi costituzionali dovrebbero comunque passare al vaglio del senato, che potrebbe avere un colore diverso da quello della camera. Ma rimane il carattere “iper maggioritario” del nuovo Senato: eletto a maggioranza dalle assemblee regionali, a loro volta elette con il maggioritario. Questo significa la quasi totale esclusione delle formazioni minori e la spartizione quasi a metà del rimanente dei seggi fra i due principali partiti o (o coalizioni), ma quello di governo potrebbe giocare in più la carta dei 5 senatori di nomina presidenziale. Di fatto, chi vincesse le elezioni avrebbe il potere di mettere mano a piacimento alla Costituzione, e, dove non vi riuscisse in sede parlamentare, potrebbe poi sempre contare su una compiacente interpretazione di una Corte Costituzionale addomesticata. Questo processo di revisione costituzionale inoltre, è condotto da un Parlamento che ha un vizio di rappresentatività dichiarato dalla Consulta. Fra le democrazie liberali, non mancano assemblee senatoriali non elettive, ma espressione di poteri locali o nomine del Capo dello Stato, ma in nessun caso il senato ha poteri di leggi costituzionali, ed è il prodotto di una doppia selezione maggioritaria, che ne riduce enormemente la rappresentatività. In definitiva avremmo un parlamento composto da una Camera di nominati e un Senato di eletti di secondo grado con doppia selezione maggioritaria dal quale dipenderebbero quasi totalmente tutti gli organi di controllo e garanzia e i processo di revisione costituzionale: si tratterebbe di una situazione piuttosto anomala nel quadro delle democrazie liberali.”  Non saprei immaginare una analisi così dettagliata meglio formulata, e pacata nei toni.  Il problema è cercare di capire come si possibile che si siano creati in Italia i presupposti per cui personaggi come Berlusconi e Renzi siano potuti divenire presidenti del consiglio. Ho già scritto su questo blog che c’è stato in Italia un colpo di stato autentico sebbene attuato in modo strisciante e graduale, ma non per questo incruento.  Dal ’78 a partire dal rapimento Moro e dallo sterminio della sua scorta, e poi a perfezionamento dell’opera già iniziata, con gli attentati e le stragi tra il ’92 e il ’93. Il numero delle vittime è stato relativamente contenuto rispetto a quel che avvenne in Sudamerica in circostanze di colpi di stato, ma l’uso ricattatorio del terrore può produrre effetti sostanzialmente analoghi. In Italia l’intreccio tra criminalità organizzata, eversione e potere politico formale è di tutta evidenza, tant’è che abbiamo una maggioranza di partiti impegnatissima a polemizzare con la magistratura soprattutto quella inquirente, ad intimidirla ad inibirla per il possibile. Poi la storia fa il resto, perché c’è una lunga serie di magistrati, a parte Falcone e Borsellino, Chinnici, e tutti giudici uccisi dalla mafia, che per continuare a vivere e ad essere persone oneste hanno dovuto lasciare la magistratura medesima perché, da sempre, fare il magistrato coscienzioso in Italia implica pagare un prezzo molto alto, anche quando non si giunge alla sua eliminazione fisica. Voglio ricordare, per inciso, Luigi Tosti, magistrato rimosso dall’incarico, e processato per essersi rifiutato di tenere udienza in un’aula con il crocifisso. Vive ancora, ma non per questo cade il motivo di lagnanza per qualsiasi persona civile di questo sciagurato Paese.  Tutto questo ha a che fare con il 25 Aprile, molto più di quanto non sembri. Anche se la retorica della vecchia DC e del vecchio Pci, ha contribuito a far confusione, la mancata acquisizione dei valori più autentici dell’antifascismo, ha fatto sì che non si fosse più in grado in Italia di riconoscere come deleteri per la propria convivenza civile, i valori e le politiche in sostanziale aderenza ai valori del fascismo medesimo. La politica di sopraffazione criminale è sostanziale contiguità col fascismo, ma non lo si è percepito come tale.  Prospera un partito che si chiama Lega Nord, inequivocabilmente razzista che viene percepito come un partito normale e legittimo, che non a caso si allea apertamente a Roma con forze dichiaratamente fasciste, e tutto ciò non viene percepito come “normalità”. Quel che voglio sostenere, ancora una volta, è che ciò che una volta si chiamava opportunamente “dominio di classe” oggi si esercita anche, se non soprattutto con l’attacco al concetto di legalità. Questo, bisogna dirlo, in misura ben peggiore di quanto non avvenisse nel ventennio mussoliniano, ed è un dato che accresce la confusione a riguardo dell’antifascismo. Per Mussolini, lo Stato aveva una sua funzione, per quanto reazionaria e discriminante, per i nostri governanti attuali invece lo Stato è un semplice forziere da svuotare a proprio vantaggio, all’insegna del “privato è bello” ogni carica istituzionale tende a disporre dell’Istituzione che presiede, come fosse cosa propria, dai presidi che si fanno costruire i bagni di loro uso esclusivo nelle scuole, agli ammiragli, che stando a una certa vicenda che non voglio qui richiamare per intero, fanno modificare i progetti di navi da guerra in funzione delle proprie comodità abitative.  Piercamillo Davigo nelle sue esternazioni ha perfettamente ragione, tant’è che si è alzata la voce dei corifei renziani, tra cui udite udite, perfino quel personaggio che risponde a nome di Massimo Gramellini, che atteggiandosi a maître à penser tutte le settimane, nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio “Che tempo che fa”, ci ammorba con le sue banali ovvietà, quando non irritanti assurdità. Ebbene il controllo dei mezzi di informazione è un altro tratto distintivo del fascismo, che non riconosciamo come tale. Tra l’altro Fabio Fazio ha l’alea di un personaggio di “sinistra” tra i conduttori televisivi. Questi sono tra i tanti motivi, per cui è del tutto legittimo parlare di Resistenza tradita, perché l’abbiamo tradita davvero, perché nessuno rivendica più la sua natura di lotta di calasse, senza di che non si sarebbe mai concretizzata, almeno in Italia.  Si blatera ancora di “questione morale”, ma la situazione è molto più grave della questione morale. Sul “Il Fatto Quotidiano” di oggi, 4 Maggio 2016 Marco Travaglio, opportunamente, scrive una lettera pubblica al presidente Mattarella, perché non avalli la nomina del generale Toschi a comandante generale della Guardia di Finanza. Andatela a leggere.