venerdì 4 luglio 2014

La storia e la guerra, Renzi e il partito unico. 1)

Dice Barnaba Maj, che di mestiere fa il professore universitario in quel di Bologna e si occupa di filosofia della storia: << Quante guerre ci sono state, e ci sono tuttora in atto, nella storia? Se si esamina per così dire lo statuto epistemologico della “guerra” nella storiografia, salta agli occhi un paradosso: è trattata quasi sempre in modo evenemenziale e la loro ricostruzione specialistica affidata alla storiografia tecnica.>> (Cnf. “Tempo e temporalità storica” in Discipline Filosofiche, Quodlibet ed. XXII I 2012, Presentazione). Sono convinto da tempo che il problema della storia, e di come si usa elaborarla in un determinato contesto sia un problema per nulla secondario in politica, e che non sia possibile capire ciò che ci succede se non abbiamo una idea in qualche modo vicina al vero di ciò che è successo in passato. Mai come oggi, credo, la più becera mistificazione della storia è uno strumento di potere politico, e le guerre, a volte vengono perfino chiamate “missioni di pace”. Certo si potrebbe obiettare che il potere abbia sempre mistificato la storia per suo tornaconto, ma questa mistificazione non è mai stata così profonda, al punto da mettere in crisi la disciplina della storia in quanto tale. Per questo nel settore della filosofia della storia vi è un grande fermento che a me pare sintomatico della sua crisi per altro percepita come tale dagli stessi studiosi del settore. La vita dell’umanità si snoda su un percorso che ha una sua logica, per cui nel passato ci sono le premesse per ciò che succede nel presente, e che non sia possibile analizzare i fatti che succedono e che sono successi senza comprenderne le concatenazioni logiche che li legano tra loro. In linea generale viviamo un tempo in cui il domino delle idee, o gli interessi che sottostanno alle idee che vanno per la maggiore, impediscono di cogliere queste concatenazioni. Tornando alla citazione iniziale di Barnaba Maj, si può osservare che, almeno nella situazione italiana, non solo le guerre, ma anche le stragi, i delitti eccellenti, sono trattati con i medesimi criteri di cui parlava il Prof. Maj, come fatti estraibili dal contesto e quindi appunto evenemenzialmente. Altro problema non c’è se non quello giudiziario, quasi che l’ordinamento giudiziario, fosse anche perfettamente funzionante e non lo è, notoriamente, possa risolvere di per sé, problemi attinenti altre sfere della vita politica e sociale. Nella generalità dei casi manca la riflessione sul ciò che consegue da determinati fatti, quali appunto quelli cui mi riferivo. Ora, tanto per dire, ormai c’è una produzione teorica in diversi campi, ne parlano filosofi, storici, sociologi, psicologi, che sottolineano come si sia perso, nella cultura postmoderna dominate, la capacità di capire il passato forse perché, mi verrebbe da dire, abbiamo perso la capacità di percepire correttamente il ritmo del tempo che passa, che è quello che consente il sedimentarsi dei fatti storici a causa, se vogliamo, degli effetti del nostro vivere immersi nella nevrosi indotta  mondo dei media, al cui interno si percepisce malamente il ritmo naturale della vita, l’alternarsi di giorno e notte, e per i più, tra coloro che anno diritto di cittadinanza,  perfino la capacità di sperimentare direttamente le quantità di  lavoro fisico per compiere gesti “naturali”.  Dice in un verso di “Lettera” il grande Guccini “C’ è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ansimo dopo una corsa” E quindi, tornando al problema della guerra, non siamo in grado di analizzare correttamente le guerre del passato, e conseguentemente non siamo in grado di cogliere le conseguenze che si ripercuotono nel presente. Le due guerre mondiali non si sottraggono a questo destino. Intanto vengono spesso rappresentata nelle ricostruzioni giornalistiche destinate spesso a trasmissioni televisive o a DVD o alla carta stampata nelle occasioni delle ricorrenze che tali eventi dettano, tipo il 6 giugno, anniversario appunti dello sbarco angloamericano in Normandia del 1944, superbamente celebrato con dovizia di assistenza mediatica, come eventi disconnessi tra loro. E tuttavia anche al di fuori di questi contesti, come problema nel problema, c’è una propaganda persistente, ora più vistosa ora più discreta, in cui il motivo dello sbarco angloamericano in Normandia viene segalato come l’episodio che segnò la svolta nel conflitto mondiale e che determinò l’assetto democratico dell’Europa occidentale. A scanso di equivoci non credo sia sostenibile una tesi per cui tali eventi siano indifferenti sul corso degli eventi che seguirono, al contrario; solo che la loro importanza va collocata diversamente da quanto di voglia far credere.  Comunque, tornando al tema, in modo ancora più sottile e pervicace, l’attività di propaganda ottiene il risultato di far credere che le guerre sono considerati eventi meramente catastrofici, eccezionali, epocali, ora dovuti alla follia di Hitler, nel caso della seconda, ora a passaggi d’epoca come nella prima, scambiando così la causa per l’effetto, ma sempre legate a cause eccezionali e straordinari, e per ciò stesso irripetibili, o non riproponibili nel mutato contesto odierno. Va da sé che siano davvero irripetibili nelle medesime forme, ma non nella sostanza. Le due guerre mondiali, per esempio, vengono generalmente percepite come inserite in epoche storiche profondamente diverse tra loro. Eppure tra i due eventi intercorrono 31 anni calcolati dall’inizio della prima alla fine della seconda, che costituiscono un lasso di tempo perfettamente racchiudibile nella esistenza di un individuo in età di ragione. Una persona, poniamo, che avesse vent’anni nel 1914, posto che sia sopravvissuta alla guerra stessa, ne ha cinquantuno nel 1945. Difficile, in un contesto più obiettivo, sottrarsi alla sensazione che vi sia un nesso tra i due eventi, quasi che gli “accordi di pace” siano sempre in grado di chiudere definitivamente ogni tipo di contenzioso e di problema insito nel conflitto stesso, e segnano per l’appunto, “cambiamenti epocali”.  Per carità, ora non voglio sostenere che il nesso tra le due guerre non sia stato preso in considerazione da nessuno, al contrario, solo che l’argomento è rimasto in un ambito elitario, che non rientra molto nelle numerose vulgate, si sarebbe detto un tempo, sulle cause della seconda guerra mondiale cui accennavo prima, in pratica non ha nessuna incidenza sulla politica di oggi, che è quello che per me conta. Invece i cardini della divulgazione della storia è incentrata sulla presenza “provvidenziale” degli Usa che hanno liberato l’Europa dal nazismo, disinteressatamente e per amore della libertà e della democrazia e, al contempo, demonizzare l’Unione Sovietica e di Stalin, spesso rappresentato come una sorta di equivalente ideologico del nazismo.  Ora, a ben riflettere c’è stato un prima e un dopo che accomuna le due guerre, ed è proprio il ruolo degli Usa nell’Europa e nel mondo. Le due guerre hanno rappresentato un volano potentissimo per l’economia Usa che si è avvalsa in primo luogo della non trascurabile circostanza di avere il proprio territorio al riparo dalle distruzioni proprie dei teatri di guerra come lo furono l’Europa e l’Asia, e poi in secondo luogo per i crediti, ovviamente vantaggiosi che gli Usa elargirono a piene mani. Di pari passo le due guerre hanno determinato un forte ridimensionamento delle economie europee e del relativo peso politico internazionale, si pensi al ruolo che aveva la Gran Bretagna prima delle due guerre e a quello decisamente residuale che ha avuto dopo le due guerre. Ora la Gran Bretagna è una sorta di costola volontaria degli Usa. Approfondire e rendere teoricamente dignitoso questo tipo di riflessione, credo, gioverebbe a rendere meno evenemenziale il discorso storico sulla guerre, giuste le teorie di Maj. Certo vi è un fenomeno politico ed economico parallelo, che riguarda il fenomeno dell’Urss e della Cina, che hanno registrato grandi progressi economici anche durante le guerre, pur avendo i propri territori coincidenti, almeno in gran parte, col teatro delle operazioni belliche, e al di fuori di qualsiasi gioco economico tendente ad aspirare risorse da altri territori, come appunto fecero e fanno i paesi dell’Europa occidentale. Quel che conta è rappresentare ciò che accadde, a proposito della seconda guerra mondiale, anche a rischio di contraddire i fatti che pure correttamente si rilevano, non sempre a dire il vero, come la dimostrazione di quintessenza di potenza e al tempo stesso di democrazia degli Usa relegando tra parentesi, come fosse cosa di poco conto le incertezze iniziali nei confronti di Hitler condensato nel cd spirito di Monaco da parte delle democrazie occidentali. Ormai è richiesto una particolare dose, al momento della loro interpretazione, di onestà intellettuale, per concludere che alle suddette democrazie occidentali stava bene il regime hitleriano, a patto che si limitasse ad espandersi verso oriente, ossia verso l’Unione Sovietica. Ricordo, principalmente a me stesso, che la conferenza di Monaco si tenne il 29-30 settembre 1938 tra Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania e stabilì l’annessione dei Sudeti, territori della Cecoslovacchia, alla Germania, mettendo di fronte al fatto compiuto tanto l’Unione Sovietica, ovviamente contraria, quanto e soprattutto la medesima Cecoslovacchia, paese che pure gravitava nell’orbita di influenza occidentale. Con ciò stesso svanirono le possibilità di una alleanza militare di Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica contro la Germania, con il tenue alibi della opposizione di Polonia e Ungheria al passaggio delle truppe sovietiche, condizione necessaria per stroncare sul nascere ogni velleità aggressiva da parte hitleriana, così come chiesto ripetutamente dai sovietici medesimi. Ma, con tutta evidenza, non era questa la prospettiva più auspicabile per gli interessi occidentali, per i quali invece l’aggressione tedesca alla Unione Sovietica era l’opzione migliore, come confermano i fatti che seguirono tant’è che lo sbarco degli alleati in Normandia nel ‘44 avvenne quando l’aggressione nazista all’Unione Sovietica si era già concretizzata in una catastrofe per la quantità e qualità delle forze militari impegnate e relativi costi, non solo economici. In pratica l’invasione dell’Unione Sovietica esaurì irreversibilmente il potenziale bellico hitleriano.  Sicuramene la storia non si fa con i se e con i ma, e tuttavia è lecito supporre che in caso di vittoria tedesca a Stalingrado, lo sbarco in Normandia si sarebbe svolto, posto che se ne ravvisasse ancora la necessità, in ben altre condizioni. L’importante per gli Usa è che ci fosse una guerra in Europa, la terra di un potenziale concorrente economico in grado si soverchiarli, in applicazione del classico detto: divide et impera. Gli sbarchi alleati in Italia e in Francia, quindi, a ben vedere, furono effettuati per prevenire l’occupazione sovietica dell’Europa, e non fu una manifestazione della ispirazione democratica e antinazista delle potenze occidentali.  La lotta la nazismo, se vogliamo dirla tutta, non era cosa che interessasse davvero gli alleati, al contrario è lecito supporre che una vittoria tedesca avrebbe sicuramente portato ad una situazione europea perfino più accettabile per gli Usa, non una “prima scelta” ma un ripiego plausibile. Il suo limite non era dato dai campi di concentramento o dai livelli di oppressione interna ma dalle sue pretese di supremazia internazionale. Le cd “democrazie liberali” erano più compatibili col nazismo di quanto non si dica. Le riprove abbondano, dato che i gerarchi nazisti trovarono rifugio in paesi del Sudamerica, all’epoca sotto stretta egemonia Usa, e in Italia non furono praticamente mai perseguiti, e, grazie anche al comunista Togliatti, non ci fu nessun tipo di epurazione nelle forze armate e negli apparati dello stato, di modo che lo Stato italiano, solo retoricamente può dirsi come “nato dalla resistenza”, non a caso questa espressione la si usa esclusivamente per la Carta Costituzionale; al contrario nelle fabbriche, Fiat in testa, l’epurazione dei comunisti e dei partigiani ci fu. Inoltre la vicenda di Kappler è una conferma di questo assunto e non lo contraddice per nulla. Pertini, per fare un altro esempio, negli anni della sua presidenza rivendicò la sua partecipazione alla decisione politica di condannare a morte Mussolini, non per ansia di vendetta, ma perché era noto che gli inglesi avrebbero voluto “riciclarlo” nella vita politica italiana. Quindi, tornando alla politica in Italia la doppiezza è quasi d’obbligo; bisogna essere democratici di facciata, salvo poi, in concreto a ispirarsi a principi di segno opposto. Per esempio, in Italia siamo stati governati, democraticamente, si fa per dire, da un partito che si chiama “Lega Nord” sedicente secessionista, nonostante la Costituzione, ha attuato in collaborazione con Berlusconi, politiche razziste, con profondi legami con la criminalità organizzata, con politiche economiche assolutamente recessive, asservite all’Euro, ossia alla Germania riunificata. Una forza che, sul piano istituzionali, ha cercato e cerca di uniformare in tutto e per tutto l’Italia agli Usa, senza che nessuno percepisse la ridicolaggine del “federalismo” all’italiana e il suo essere appunto una giustapposizione senza radici nelle storia e nelle esigenze reali del paese, avendo ricevuto, su questo anche il pieno appoggio del Pd, tant’è che si sta dibattendo di una riforma del Senato di cui quasi nulla si capisce tranne che si vuol reintrodurre l’autorizzazione a procedere per i senatori che non avrebbero, nell’ipotesi in discussione, neppure la dignità di essere “eletti del popolo”.   Un Paese che si vuole indipendente ma tale non è e non lo è in misura assai maggiore di quel che comporta una normale collocazione in una “sfera d’influenza” perché non abbiamo il controllo totale ed esclusivo delle forze armate, non abbiamo il potere di battere moneta. Certo il discorso è lungo e qui viene solo abbozzato ma credo sia assai pertinente. Altra questione assai importante che discende sempre dalla situazione politica creatasi al termine della guerra, è che in Italia vi è una integrazione del mondo criminale in alcune leve di comando dello stato a cui ci siamo assuefatti al punto che  nessuno, in tema di collusione tra ceto politico e criminalità organizzata, considera che le persone non si possono scindersi in più parti, e che se un delinquente ricopre ruoli politici può farlo esclusivamente nell’interesse suo privato delinquenziale. Su questi aspetti in Italia vi è una tolleranza che va oltre ogni logica, infratti riscuoto successi elettorali formazioni politiche il cui rapporto con la criminalità è conclamato, e questo perfino al netto del condizionamento dei media che pure è fortissimo e costantemente sottovalutato “a sinistra”. Ma tornando alle questioni internazionali va rilevato che politiche di dominio Usa nel Sudamerica fino a tutti gli anni ’80 furono improntate a criteri apertamente replicanti il sistema hitleriano. Nell’ Europa del dopoguerra, gli Usa furono i principali ispiratori dei colpi di stato del 1967 in Grecia, per non parlare della situazione italiana del dopoguerra, dalle strategie stragiste all’ affair Moro di cui mi sono già occupato in questo blog parlando di Berlinguer, il segretario comunista filoatlantico. Comunque a proposito della Grecia, nessuno ricorda che dal 1946 al 1949, in pieno dopoguerra la democratica Gran Bretagna intervenne militarmente con mano pesante per affossare la legittima repubblica greca nata con la resistenza, quella sì, davvero autonoma da tutti egemonizzata dai comunisti, senza che nessuno intervenisse in suo favore, neppure quel cattivone di Stalin che evidentemente prendeva sul serio gli accordi internazionali, e precisamente quelli di Yalta, per la circostanza. Detto banalmente la questione è ancora oggi, più ancora che nel recente passato, oggetto di propaganda ideologica tambureggiante, nei media, nei discorsi ufficiali ma anche in quelli ufficiosi. Tornando alle questioni teoriche che con queste sono strettamente intrecciate, credo sia utile citare Frank Ankersmit, membro della reale accademia olandese, il quale, riflettendo sui destini della storia come disciplina dotata di un proprio statuo che la rende scienza tra le altre scienze umane cita l’esempio del ricorso al “giorno della memoria” come esempio di un processo di “privatizzazione” della storia medesima, la cui ricerca nel recente passato, era assimilabile ad una costruzione imponente a cui ogni ricercatore apporta un contributo  paragonabile alle pietre che, una sull’altra, fanno una grande opera architettonica, dotata comunque di unicità. Ora invece la ricerca storica sembra essersi trasformata in una caccia al tesoro, dove tutti si impegnano, poco importa la specifica competenza, per trovare il “tesoro” appunto ciò che si vuol ricercare, e che, puntualmente viene trovato, anche se, in questo modo ogni ricerca è un fatto in sé, non sempre o quasi mai ricollegabile ad alle ricerche altrui, ad un impianto che consenta a tutti, o ai più, di ritrovarsi nel medesimo processo che chiamiamo appunto storia. Jörn Rüsen, è un altro studioso il quale rileva nella prassi del “giorno della memoria” analogo inganno perché, a suo dire, tale prassi serve a dare un senso con criteri soggettivi che rendono impossibile una condivisione generalizzata della interpretazione degli eventi oggetto di tale discutibile prassi, sino ad affermare: “Il ricordo e la memoria in quanto pratiche culturali, elementari ed universali, orientano in modo vivo l’esistenza e si presenta come un fuoco che riscalda il senso storico. Questo calore, rispetto alla fredda razionalità della ricerca storica oggettiva, appare un paradiso perduto. (….) in fondo gli scienziati sanno meglio di chiunque altro che il calore del ricordo storico si raffredda durante la verifica dei suoi contenuti e della sua attitudine al vero, di cui la scienza si fa interprete.” Per essere più chiaro rileverò che c’è stato un tempo in cui anche tra intellettuali politicamente schierati, c’era un dissenso esplicito sulle interpretazioni dei fatti storici, non sui fatti medesimi. Intellettuali del tipo di Croce e perfino Gentile, non hanno mai pensato di falsificare eventi storici per fini politici, solo di dare loro una interpretazione, che certamente potrebbe risultare non accettabile, mentre ore abbondano ricostruzioni “storiche” che sono delle falsità accertabili. Nel passato, tale accusa, ossia di falsificare la storia è stata rivolta raramente, e il più importante tra coloro cui è stata rivolta è stato Osvald Spengler, su cui tornerò più avanti. (continua)