lunedì 23 maggio 2016

Renzi, Berlinguer e la “questione morale”



“La questione morale” è nata, in quanto specifica riflessione politica così denominata, da una famosa intervista, ancora oggi citata, rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 sul quotidiano “La Repubblica”. Berlinguer all’epoca era segretario (terzultimo, se ben ricordo, dopo di lui Alessandro Natta e Achille Occhetto) dell’ormai disciolto Partito Comunista Italiano, a sua volta erede del Partito Comunista d’Italia,] fondato a Livorno nel 1921 da un gruppo di personalità dissidenti dell’allora Partito Socialista, comprendente tra gli altri Amedeo Bordiga (segretario della neonata formazione) e Antonio Gramsci. Certo costoro sono personaggi che, fosse possibile, si starebbero rivoltando nella tomba come si usa dire in questi casi. Ora, la questione morale, l’ha ripresa pure Renzi in un’altra intervista rilasciata su Rai3 al conduttore di “Che tempo che fa” l’8 maggio ’16, Fabio Fazio. Diciamolo francamente, tra i due interventi, Quello di Berlinguer e quello di Renzi non ci sono confronti possibili. Tanto era colto, sottile, articolato, seppur profondamente manipolatorio quello di Berlinguer, quanto tronfio, intriso di bugie elementari prive perfino di qualsiasi doppiezza politica, sintomo solo di plateale ignoranza e arroganza quello di Renzi. Bontà sua costui ammette l’esistenza di una tale angosciante questione anche nel suo Pd, che, in fondo in fondo, sarebbe l’erede di quel Pci di cui era segretario proprio lo stesso Berlinguer, quasi a dimostrare, ove ve ne fosse bisogno, che con quella intervista non vi fu nessun progresso nella lotta alla corruzione, al contrario la situazione è precipitata proprio in quel partito, non a caso direi. Infatti quella intervista di Berlinguer, a mio parere, fu una operazione sottile, ma generalmente percepita come l’esatto contrario di quella che fu realmente. Ormai da tempo viviamo in un mondo di pazzi, come dice una mia buona amica, altrimenti non si spiega il valore attribuito a questa intervista. Davvero credo che ci volesse una mente sottile come quella di Berlinguer per stabilire che il fenomeno della corruzione pone un problema “morale”, perché a lume di naso, soprattutto se parliamo di personaggi pubblici, sindaci, amministratori, eletti a qualsiasi titolo, il problema va oltre, molto oltre, soprattutto se la questione della corruzione e dei rapporti tra politica e grande criminalità è in Italia, endemica, e oserei dire, a costo di litigare con madre lingua, storicamente endemica. Nel caso in discussione non si può parlare di una questione semplicemente morale, ora come allora, ossia di costume, (se ben ricordo l’etimologia latina del termine riporta proprio al concetto di costume), ma va ben oltre. Berlinguer doveva saperlo bene, ma il suo problema era proprio questo, derubricare in capo alla DC l’accusa di essere il perno, l’asse portante, la costante garanzia di impunibilità della corruzione per effetto perfino evidente alle cronache del tempo, di una collusione con la grande criminalità in Italia, così come era nella vox populi della sinistra di allora, sostanzialmente coincidente con la base, e l’elettorato del Pci. In sostanza, con quella intervista, Berlinguer abilmente, con un linguaggio forbito e appropriato dice una cosa per intenderne un’altra. In quella intervista egli mette in capo alla Dc certamente delle responsabilità, ne fa una questione quasi meramente quantitativa. Nella Dc sembrava volesse dire Berlinguer, vi erano più casi di corruzione di quanti se ne potessero contare nel Pci, relegabili a una questione di passione politica declinante, (Il Pci all’epoca era effettivamente più pulito) ma era una responsabilità morale, quasi casuale appunto, non politica, non economica, non intrinseca al sistema di dominio delle classi dirigenti in Italia, non frutto di lucide scelte politiche. Con quella intervista Berlinguer intendeva avviare una sorta di omologazione del PCI con i partiti di governo, in grado di rapportarsi “civilmente” con la medesima DC, che, si badi bene, non andava scalzata, ma legittimata anche agli occhi del suo elettorato. Il Pci insomma, anche agli occhi dei suoi militanti, doveva diventare un partito tra gli altri, non il Partito per eccellenza, così come era concepito sino ad allora, ossi il partito della classe operaia destinato, sebbene a nessuno ormai fosse chiaro come, a instaurare il socialismo in Italia. Tant’è che fu in quel periodo che cambiò una tradizione che voleva che gli eletti del PCI nelle varie istituzioni, fossero bloccati, ossia messi in cima alla lista dei candidati, con la consegna, nelle sezioni di esprimere solo per loro il voto di preferenza. Va da sé che i singoli candidati, in queste condizioni rispondevano del loro operato nelle istituzioni solo al partito che tra l’altro si faceva carico dei costi di tutta la campagna elettorale. Proprio durante la segreteria Berlinguer questa tradizione fu superata e i singoli candidati potevano farsi una campagna elettorale autonoma, anche a proprie spese, anche in concorrenza con i colleghi di partito, col risultato che, ovviamente gli eletti cambiavano natura. Per questa via entravano in una vera e propria carriera, alla stregua di quella percorribile in un apparato amministrativo qualsiasi, in cui si era indifferenti alla autentiche questioni politiche. Indovinato a tal proposito il termine casta dal fortunato libro di Sergio Stella e Gian Antonio Rizzo. Il loro operato, quello degli eletti nelle istituzioni, era rivolto e lo è ancora oggi e in misura assai maggiore di allora, essenzialmente e prioritariamente a tutelare i propri personali interessi, che erano essenzialmente clientelari, ma sicuramente poco attenti a battaglie moralizzatrici, perché ormai prendeva corpo il fenomeno del ceto politico come corpo sociale a sé stante, politicamente trasversale, separato dal resto della società e con regole omertose al proprio interno. Insomma l’onestà in politica smise di essere un valore anche nel Pci. Il significato ultimo di quella famosa intervista di Berlinguer consiste nel far cessare la corruzione medesima come un punto dirimente nei rapporti Dc-Pci. Con essa il Pci abdicava alla lotta alla corruzione come fatto intrinsecamente politico, per ridurla appunto ad una questione morale, sostanzialmente interna ai singoli partiti. Infatti di lì in poi è successo che quel mondo di sinistra si sia andato progressivamente sfaldando sino alla completa omologazione con le classi dirigenti anche sul piano della corruttela. Non a caso Renzi, che di quella tradizione dovrebbe essere l’erede, anche se fa di tutto per liberarsene, ammette che nel suo Pd vi è una questione “morale”.  La portata della parola nelle due interviste però è la medesima. Si dice morale per non dire che si tratta di scelte politiche precise. Innanzitutto il problema della moralità, per ciò che riguarda Renzi, se proprio si vuole accettare la definizione, attiene a scelte di governo tanto quanto a quelle di partito, e riguardano precisamente le sue scelte.  Infatti mi chiedo quale significato morale abbia la questione del sostegno a spada tratta ad un personaggio come Vincenzo De Luca in capo alla regione Campania. Il problema, a dispetto di ciò che dicono alcuni commentatori dall’aria di “sinistra” non è solo di quantità di voti, altrimenti non si comprende la vicenda delle primarie napoletane del Pd, truccate a danno di Bassolino e a favore della Valente. Non si può pensare che costei prenda più voti di Bassolino, solo che è più fedele a Renzi. Questa vicenda, il cui protagonista principale è sicuramente Renzi, non può, almeno credo, essere sia un esempio di moralità. Mi chiedo ancora che significato abbia nominare il Gen. Toschi a comandante della Guardia di Finanza. Per gli amici che non abbiano avuto modo di seguire la vicenda riporto per intero l’art. de “Il Fatto Quotidiano” di Mercoledì, 4 maggio 2006 di Marco Travaglio:
“Gentile presidente Mattarella, scrivo a Lei perché -pur dissentendo su alcune sue parole molti suoi silenzi-apprezzo i suoi appelli sulla corruzione. È soprattutto perché tocca a lei firmare o respingere il D.p.r. con la nomina fra gli altri del generale Giorgio Toschi a comandante della Guardia di Finanza, dopo aver espresso più di una riserva al premier Renzi, che naturalmente se n’è infischiato. Perciò le segnalo l’articolo di Ferruccio Sansa sul Fatto di ieri. Racconta di un’indagine per concussione della procura di Pisa a carico di Toschi-allora capo delle Fiamme Gialle pisane-chiusa nel 2002 con un’archiviazione imbarazzante (sia per i magistrati, sia per l’ex indagato). Di quell’inchiesta si parlava da tempo, ma nessuno è ancora riuscito a mettere le mani sulle carte. Fermo restando che nulla di penalmente rilevante può essere contestato all’alto ufficiale, i fatti accertati dal PM che ha deciso di non processarlo (mentre ha ottenuto il giudizio e la condanna di vari sottoposti per mazzette in cambio di verifiche fiscali addomesticate o inesistenti) pongono problemi etici, deontologici e di opportunità. L’allora procuratore Enzo Iannelli scrive di aver raccolto “sospetti e indizi” che non paiono sufficienti per esercitare l’azione penale contro Toschi. Un suo maresciallo raccontò a un commilitone che il comandante concludeva imprenditori conciari del cuoio o se ne faceva corrompere con “somme di denaro”, dopo aver dato “disposizione” ai sottoposti di dispensarli dagli accertamenti. I due sottufficiali conservano le lenti delle ditte produttrici o concussione che andavano esentate dalle verifiche. Un altro maresciallo si sentì dire da un imprenditore, al cambio della guardia del comandante: “speriamo che questo nuovo sia meglio del primo non detta le azioni illecite dal precedente”, cioè di Toschi. E, citando le testimonianze di quattro colleghi, raccontò che Toschi “tutti i lunedì di ogni settimana presso la Brigata amministrativa cambiava banconote vecchie con banconote nuove”. Il sabato invece-secondo un’altra fonte-un maresciallo li portava i soldi versati dagli imprenditori “tenuti fuori dalle verifiche”. Lei sa, Presidente, se il generale ha mai querelato per calunnia i suoi accusatori? Toschi-aggiunge il pm-acquistò pure tre Mercedes in quattro anni a prezzo “particolarmente favorevole”, con un “mancato guadagno per la concessionaria è un correlato di risparmio” per sé di 21 milioni e rotti di lire in tutto. Ed era solito effettuare “versamenti in contanti” in banca (“sette da 5 milioni” solo tra marzo e settembre 1995), mentre prelevava pochissimo denaro per mantenere la famiglia (10 milioni di lire nel 1991, 4,3 nel 1992, 4,5 nel 1993, 7,4 nel 1994 e 6,2 nel 1995). Nel suo quinquennio a Pisa, i pm hanno accertato che “gli imprenditori della zona del cuoio non hanno avuto, tranne rare eccezioni, verifiche fiscali a carattere generale”. Dulcis in fundo, Toschi “aderiva all’invito a cene organizzate da imprenditori della zona del cuoio, notoriamente produttori di fatturato in nero”, ovviamente risparmiati da accertamenti. Negli stessi anni, anche per molto meno, il pool Mani Pulite fece arrestare e condannare un centinaio di finanzieri, dal comandante Cerciello all’ultimo maresciallo. A Pisa invece tutto archiviato perché, scrive il pm molto spiritoso, gli “indizi e sospetti” di concussione sono “passibili, in astratto, di spiegazioni alternative” alle banali mazzette. E quali, di grazia? “Il possedere moneta cartacea nuova di zecca potrebbe corrispondere a un “vezzo” o a un bisogno soggettivo dell’interessato scambiatore”. Non è meraviglioso? Un generale della GdF col “vezzo” dei contanti e delle banconote fresche di stampa: un collezionista che ne annusa il profumo. E le cene? Un “imprudenza”. E le mancate verifiche? “Programmazione negligente, contrari a criteri di opportunità per nulla collegata a uno scambio di denaro “. L. tre Mercedes a prezzi stracciati? “Rientravano nella fisiologia commerciale”. E come spiegare i versamenti in contanti, seguiti da scarsi prelievi, indice di un abnorme disponibilità di cash? Ma naturalmente con la “possibilità di disponibilità economiche provenienti dalla famiglia originaria, del tutto benestante” (eredità? Paghetta? Il pm non allega alcuna documentazione) è-si tenga forte presidente-con “un’accentuata disponibilità a risparmio “. Ecco: un generale che preleva 4 milioni l’anno per mantenere la famiglia deve essere per forza un grande risparmiatore, anche perché le auto erano a metà prezzo è le cene le pagavano gli imprenditori. Ferma restando l’archiviazione penale, dinanzi a un quadretto così edificante, in un paese almeno decente scatterebbe un procedimento disciplinare per mettere da parte l’alto ufficiale. Sempreché l’interessato non sentisse il dovere di dimettersi. Invece toschi ha fatto carriera, quasi sempre nella Toscana di Renzi, sempre all’ombra del gen. Adinolfi, grande amico del premier. Alla luce di questi fatti, signor Presidente, non ritiene opportuno rispedire al mittente il d.p.r. che la nomina a comandante generale? In caso contrario, cosa penserà un cittadino che si vede entrare in casa la Finanza? È cosa penserà un onesto finanziere che ogni mattina va a controllare se i contribuenti pagano le tasse e deve a destarli se fanno 1/10 di ciò che ha fatto il suo capo? Tra le sue riserve sulla nomina di Toschi, c’era per caso quell’indagine? Le risulta che Renzi la conoscesse? E, se sì, ha promosso Toschi nonostante questo, o proprio per questo?.  
La vicenda è caduta in silenzio assordante, a cominciare da quello degli altri media, eppure il caso mi sembra eclatante. Se Fabio Fazio fosse stato una persona moralmente corretta, avrebbe dovuto porre quesiti del genere, nella intervista già citata, invece niente. Sempre nella stessa intervista Renzi ha fatto di più. Dopo aver argomentato sulla sua intenzione di non voler polemizzare con i magistrati ha affermato letteralmente, a proposito della distinzione istituzionale dei ruoli: “Io faccio le leggi e loro le applicano” così chiarendo in modo tanto involontario e quanto, proprio per questo incontrovertibile, la sua concezione del parlamento e dei parlamentari, anche quelli del suo partito. Non contento ha confuso il 416bis, articolo che riguarda l’associazione mafiosa, con il 41bis che riguarda il regime di detenzione penitenziaria il cosiddetto carcere duro normativa non toccata dal suo governo nonostante si sia vantato del contrario. Per non parlare degli strafalcioni di storia. Raffaele Licinio, storico di spessore, lo ha giustamente rilevato in un suo post su Fb.  Ha dichiarato, Renzi sempre nella intervista da Fazio, che il passo del Brennero fu teatro della più grande stage di combattenti della 1° guerra mondiale, mentre notoriamente, all’epoca il Brennero non era zona di confine, ma territorio austriaco e relativamente lontano dal fronte. Fu investito dai combattimenti solo verso la fine del conflitto all’esito della avanzata italiana dopo la vittoria sul Piave. Insomma Renzi dice sciocchezze in libertà senza che nessuno abbia il coraggio di fargliele notare. Al contrario Eugenio Scalfari ha avuto il coraggio di dire in un suo editoriale su “La Repubblica” che è stato magnifico e che ha convinto molti italiani e votare al referendum sulla riforma costituzionale secondo i suoi desiderata.   In questo contesto di bugie Renzi ha ammesso l’esistenza di una questione morale nel Pd, ma la più grave di tutte riguarda proprio la sua persona nonché del suo cerchio magico.

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