mercoledì 4 maggio 2016

1° Maggio, 25 Aprile, e la resistenza tradita. Oltre il 1° Maggio



C’è un tempo per tutto, e le ricorrenze hanno un loro significato e, in genere è bene che ci siano. Il problema è se queste ricorrenze debbano dare luogo e delle “feste”, ed io sono convinto che questo non sia il tempo delle feste. E’ già passato il 1° Maggio, ma decisamente il lavoro oggi in Italia ha assolutamente poco da festeggiare. Esso tende a trasformarsi in una schiavitù di fatto, anzi in alcuni casi il processo è già compiuto senza neppure la garanzia dalla fame e dalla malattia. Davvero non trovo che vi sia nulla da festeggiare, e conseguentemente trovo fuori luogo i concerti e i “concertoni” che i sindacati unitariamente organizzano, anche ora che “unitariamente” non fanno più nulla, salvo le ultimissime iniziative. Faccio salvo da queste critiche il concerto di Taranto, nato proprio per contestare lo spirito di quello “ufficiale” di Roma. E se devo essere sincero credo che i sindacati così come sono stati sin ora siano uno strumento inadeguato. Serve organizzare solidarietà e lotta. Le lotte hanno un costo i cui benefici ricadono su tutti ma i costi solo su chi lotta, e non può più essere così, in oltre non possono più essere simboliche, devono continuare sino a quando l’obiettivo non si raggiunge. Credo che ora si sia lontani da ciò, mancano anche delle fondamentali premesse politiche.  Ma questo è solo un esempio dei problemi che pone oggi una ripresa efficace delle lotte del lavoro. Poi ci sono le prospettive organizzative e politiche che vanno rielaborate in funzione delle situazioni date. Serve unità effettiva e una organizzazione che comprenda al suo interno i braccianti immigrati e schiavizzati, i giovani, vittime del precariato in tutte le sue forme, oltre alle categorie di lavoratori che già hanno una tradizione di sindacato, sebbene ora il sindacato rappresenta una minima parte dei lavoratori, e non a caso. Quindi trovo che ci sia davvero poco da festeggiare il 1° maggio di questi tempi se non per il fatto che sui media si parla di lavoro per la circostanza. Se ne parla poco e malissimo, ma intanto se ne parla. Allora preferisco parlare ancora del 25 Aprile. Anche questa pare sia una festa, anche se, va detto, l’aspetto festaiolo incide assai poco sulle iniziative che si prendono per la ricorrenza. Si sono svolte ancora cortei e molte iniziative. A dire il vero c’è un impegno crescente a svuotare ulteriormente una ricorrenza già ampiamente ridimensionata nel corso del tempo. Comunque c’è una tradizione in queste manifestazioni che la tiene comunque viva, ed è bene mantenerla. Vi è stata anche, il 24, un giorno prima perfino una manifestazione dei reduci di Salò, svoltasi regolarmente senza che nessuna autorità abbia sentito il dovere di interromperla e denunciare i partecipanti, il fatto che siano stati per lo più anziani e reduci non deve essere una scusante. Magari non li si manda in galera, ma un certo fastidio che ricordi che queste manifestazioni non sono lecite andrebbe arrecato anche a loro. Poi c’è stato qualche sindaco leghista che ha fatto deliberare perfino il divieto alla banda del comune di suonare “Bella Ciao”, e a qualche altro ha fatto senso che la banda di Milano suonasse “l’Internazionale”. Di questo passo, tra poco ci racconteranno che la resistenza l’hanno fatta Bossi e Maroni, magari con il supporto di qualche “ ’ndranghetista” amico loro. Anche, in questa occasione si è dimostrato che l’apologia di fascismo, sebbene formalmente reato, è di fatto largamente consentita. A Predappio c’è un museo dove ogni anno si commemora il duce e la Repubblica di Salò, cosa che trovo un abominio da non potersi giustificare neppure con una generica nostalgia del ventennio mussoliniano. Mi illudo ancora che tutte le persone dotate di normale buon senso convengano su questo. Meglio a Napoli, dove si è opportunamente associata la ricorrenza alla protesta contro la camorra e dove si è allontanata la candidata del Pd alle prossime elezioni comunali. E’ giusto che cerchi altrove i suoi voti. Ciò premesso bisogna poi ammettere che, dalla maggior parte della popolazione italiana questa ricorrenza non è sentita. L’antifascismo non è un valore per la maggior parte di noi. Se si dovesse fare una inchiesta sociologica seria sulla totalità della popolazione riscontreremmo questo tipo di carenza ancora oggi. Nel passato invece gli esiti delle elezioni politiche del ’48, danno una idea chiara dei rapporti tra gli italiani e la guerra di liberazione. Pare che essa sia appartenuta solo a chi l’ha fatta, mentre chi ne ha tratto evidenti benefici, pur senza sparare un colpo, prende le distanza, come da cosa che non lo tocca da vicino. Certo il ’68 ha contribuito a rinforzare il senso dell’antifascismo, ma ciò nonostante questa battaglia non è mai stata vinta, né credo, a questo punto, lo sarà mai. La Costituzione che scaturì dall’antifascismo, già mai applicata integralmente, è stata stracciata da un presidente del consiglio, spero in modo non irreversibile, che assomiglia molto di più alla caricatura che ne fa Crozza che ad una persona reale. Renzi ha il portamento, l’eloquio, l’approccio comunicativo, proprio di un bulletto di periferia. La sua cultura non va oltre questa dimensione psicosociale, e se vogliamo attribuirgli un riferimento politico, è proprio quello di Mussolini; un uomo solo al comando con una differenza a suo svantaggio. Renzi sceglie collaboratori che sono dei semplici yes man senz’anima e senza nessuna ipotetica autonomia, mentre i più fedeli collaboratori di Mussolini, sono stati fucilati o comunque condannati a morte in seguito al terribile processo di Verona del gennaio 1944. Insomma, nessun giglio magico defenestrerà Renzi, il gran consiglio del fascismo era meglio. Loro avevano una statura politica perfino superiore. Del resto neppure Renzi ha quella di Mussolini: è proprio vero che le tragedie, nella storia, si ripropongono in forma di farsa.  Infatti il nostro bulletto è sempre in giro a propagandare sé stesso, molto più di un piazzista di professione, e c’è da chiedersi quando trovi il tempo di leggersi qualche carteggio. E’ evidente che delega ad altri yes men culturalmente dotati quanto lui l’attività che dovrebbe essergli propria, col risultato di avere una produzione legislativa anche formalmente scadentissima, in un campo in cui forma e sostanza si identificano perfettamente. Basta leggersi gli articoli della riforma costituzionale che riguardano le funzioni del nuovo senato, o il provvedimento che acclude il pagamento del canone Rai alla bolletta dei consumi di elettricità, criticato perfino dal Consiglio di Stato, che non è certo un organismo contrassegnato da pregiudizio nei confronti di chi governa. Assai seria è la questione della riforma istituzionale, che è effettivamente orientata alla legittimazione dell’ ”Uomo solo al comando”. Non so formulare nessuna critica a riguardo senza pensare ad un intervento di Aldo Giannulli, in forma di lettera al ministro Boschi pubblicata da il “Fatto Quotidiano” di domenica 27 luglio 2014 pag. 4 che riporto integralmente:
“Onorevole ministro, Ella ha negato che le riforme istituzionali in corso d’opera (in quel momento) costituiscono una svolta autoritaria. Non sarebbe la prima volta, che da una norma costituzionale sbagliata seguano conseguenze gravi ed estranee alla volontà del legislatore: sicuramente i costituenti di Weimar che inseriscono lo stato d’eccezione, non immaginavano l’uso che ne avrebbero fatto i nazisti 12 anni dopo. Il rischio insito in questa riforma è lo smantellamento delle misure a protezione della Costituzione volute dai costituenti: il sistema elettorale proporzionale (sottinteso dal testo) il bicameralismo perfetto con la diversa base elettorale tra le due Camere, l’integrazione del collegio elettorale del presidente della Repubblica con i rappresentanti regionali, l’istituzione di un giudice di legittimità costituzionale, le maggioranze richieste sia per l’elezione del Presidente quanto dei giudici della Consulta, nonché per i processi di revisione costituzionale costituivano un insieme organico di norme a tutela dei meccanismi di controllo e garanzia della Repubblica. E questo per evitare il rischio di concentrare il potere nelle mani di un solo partito da cui sarebbe nato un regime. Da circa vent’anni è iniziato un processo di “mutamento costituzionale a rate” che ha finito per smantellare quell’accorta architettura. Di fatto, è con il passaggio dal proporzionale al maggioritario che è venuta meno la principale garanzia. Nel ventennio appena trascorso è passato il costume, sconosciuto in passato, delle riforme Costituzionali unilaterali, decise dalla sola maggioranza. In nessun sistema basato su una legge elettorale maggioritaria, il processo di revisione costituzionale è affidato al Parlamento, ma si prevede l’intervento del Capo dello Stato o dell’equivalente della consulta o dl referendum popolare. Ora, la riforma in corso di discussione travolge anche questi residui paletti, lasciando sol quello tenuissimo, della prassi costituzionale. Con la riduzione del senato a 95 membri, il parlamento in seduta comune passa da 1008 membri (più gli ex presidenti) a 725, per cui la maggioranza assoluta dei votanti, scende da 505 a 363 voti. Considerando che l’Italicum prevede un premio elettorale di 354 seggi per il vincitore si ricava che bastino solo 9 senatori per assicurare al partito di governo il potere di eleggere da solo tanto il presidente della Repubblica quanto i giudici costituzionali. Il Capo dello Stato, a sua volta, ha il potere di nominare altri 5 giudici che garantirebbero una maggioranza precostituita nella corte dei giudici di ispirazione governativa. Con la stessa maggioranza potrebbe essere messo in stato di accusa il Presidente che, quindi, si troverebbe a dipendere totalmente dalla maggioranza, perdendo la sua terzietà. La stessa nomina dei senatori non più a vita ma per sette anni (come il mandato presidenziale) li configurerebbe come una sorta di “gruppo parlamentale del Presidente” da affiancare alla maggioranza. Certo le leggi costituzionali dovrebbero comunque passare al vaglio del senato, che potrebbe avere un colore diverso da quello della camera. Ma rimane il carattere “iper maggioritario” del nuovo Senato: eletto a maggioranza dalle assemblee regionali, a loro volta elette con il maggioritario. Questo significa la quasi totale esclusione delle formazioni minori e la spartizione quasi a metà del rimanente dei seggi fra i due principali partiti o (o coalizioni), ma quello di governo potrebbe giocare in più la carta dei 5 senatori di nomina presidenziale. Di fatto, chi vincesse le elezioni avrebbe il potere di mettere mano a piacimento alla Costituzione, e, dove non vi riuscisse in sede parlamentare, potrebbe poi sempre contare su una compiacente interpretazione di una Corte Costituzionale addomesticata. Questo processo di revisione costituzionale inoltre, è condotto da un Parlamento che ha un vizio di rappresentatività dichiarato dalla Consulta. Fra le democrazie liberali, non mancano assemblee senatoriali non elettive, ma espressione di poteri locali o nomine del Capo dello Stato, ma in nessun caso il senato ha poteri di leggi costituzionali, ed è il prodotto di una doppia selezione maggioritaria, che ne riduce enormemente la rappresentatività. In definitiva avremmo un parlamento composto da una Camera di nominati e un Senato di eletti di secondo grado con doppia selezione maggioritaria dal quale dipenderebbero quasi totalmente tutti gli organi di controllo e garanzia e i processo di revisione costituzionale: si tratterebbe di una situazione piuttosto anomala nel quadro delle democrazie liberali.”  Non saprei immaginare una analisi così dettagliata meglio formulata, e pacata nei toni.  Il problema è cercare di capire come si possibile che si siano creati in Italia i presupposti per cui personaggi come Berlusconi e Renzi siano potuti divenire presidenti del consiglio. Ho già scritto su questo blog che c’è stato in Italia un colpo di stato autentico sebbene attuato in modo strisciante e graduale, ma non per questo incruento.  Dal ’78 a partire dal rapimento Moro e dallo sterminio della sua scorta, e poi a perfezionamento dell’opera già iniziata, con gli attentati e le stragi tra il ’92 e il ’93. Il numero delle vittime è stato relativamente contenuto rispetto a quel che avvenne in Sudamerica in circostanze di colpi di stato, ma l’uso ricattatorio del terrore può produrre effetti sostanzialmente analoghi. In Italia l’intreccio tra criminalità organizzata, eversione e potere politico formale è di tutta evidenza, tant’è che abbiamo una maggioranza di partiti impegnatissima a polemizzare con la magistratura soprattutto quella inquirente, ad intimidirla ad inibirla per il possibile. Poi la storia fa il resto, perché c’è una lunga serie di magistrati, a parte Falcone e Borsellino, Chinnici, e tutti giudici uccisi dalla mafia, che per continuare a vivere e ad essere persone oneste hanno dovuto lasciare la magistratura medesima perché, da sempre, fare il magistrato coscienzioso in Italia implica pagare un prezzo molto alto, anche quando non si giunge alla sua eliminazione fisica. Voglio ricordare, per inciso, Luigi Tosti, magistrato rimosso dall’incarico, e processato per essersi rifiutato di tenere udienza in un’aula con il crocifisso. Vive ancora, ma non per questo cade il motivo di lagnanza per qualsiasi persona civile di questo sciagurato Paese.  Tutto questo ha a che fare con il 25 Aprile, molto più di quanto non sembri. Anche se la retorica della vecchia DC e del vecchio Pci, ha contribuito a far confusione, la mancata acquisizione dei valori più autentici dell’antifascismo, ha fatto sì che non si fosse più in grado in Italia di riconoscere come deleteri per la propria convivenza civile, i valori e le politiche in sostanziale aderenza ai valori del fascismo medesimo. La politica di sopraffazione criminale è sostanziale contiguità col fascismo, ma non lo si è percepito come tale.  Prospera un partito che si chiama Lega Nord, inequivocabilmente razzista che viene percepito come un partito normale e legittimo, che non a caso si allea apertamente a Roma con forze dichiaratamente fasciste, e tutto ciò non viene percepito come “normalità”. Quel che voglio sostenere, ancora una volta, è che ciò che una volta si chiamava opportunamente “dominio di classe” oggi si esercita anche, se non soprattutto con l’attacco al concetto di legalità. Questo, bisogna dirlo, in misura ben peggiore di quanto non avvenisse nel ventennio mussoliniano, ed è un dato che accresce la confusione a riguardo dell’antifascismo. Per Mussolini, lo Stato aveva una sua funzione, per quanto reazionaria e discriminante, per i nostri governanti attuali invece lo Stato è un semplice forziere da svuotare a proprio vantaggio, all’insegna del “privato è bello” ogni carica istituzionale tende a disporre dell’Istituzione che presiede, come fosse cosa propria, dai presidi che si fanno costruire i bagni di loro uso esclusivo nelle scuole, agli ammiragli, che stando a una certa vicenda che non voglio qui richiamare per intero, fanno modificare i progetti di navi da guerra in funzione delle proprie comodità abitative.  Piercamillo Davigo nelle sue esternazioni ha perfettamente ragione, tant’è che si è alzata la voce dei corifei renziani, tra cui udite udite, perfino quel personaggio che risponde a nome di Massimo Gramellini, che atteggiandosi a maître à penser tutte le settimane, nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio “Che tempo che fa”, ci ammorba con le sue banali ovvietà, quando non irritanti assurdità. Ebbene il controllo dei mezzi di informazione è un altro tratto distintivo del fascismo, che non riconosciamo come tale. Tra l’altro Fabio Fazio ha l’alea di un personaggio di “sinistra” tra i conduttori televisivi. Questi sono tra i tanti motivi, per cui è del tutto legittimo parlare di Resistenza tradita, perché l’abbiamo tradita davvero, perché nessuno rivendica più la sua natura di lotta di calasse, senza di che non si sarebbe mai concretizzata, almeno in Italia.  Si blatera ancora di “questione morale”, ma la situazione è molto più grave della questione morale. Sul “Il Fatto Quotidiano” di oggi, 4 Maggio 2016 Marco Travaglio, opportunamente, scrive una lettera pubblica al presidente Mattarella, perché non avalli la nomina del generale Toschi a comandante generale della Guardia di Finanza. Andatela a leggere.

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