venerdì 14 gennaio 2011

Marchionne e l’occupazione americana.


Sarà certamente antipatico,  ma non resisto alla tentazione di asserire : “ L’avevo detto”. Quando parlavo di occupazione americana, mi riferivo anche ad una serie di processi complessi che non apparivano come tali ad un primo approccio, ma la vicenda Fiat ha il pregio della chiarezza.  Voglio sperare che nessuno si faccia abbagliare dal cognome e dai natali italiani, perché Marchionne è un manager che presta la sua opera al miglior offerente. Nessuno, evidentemente lo ha pagato e lo paga, in modo del tutto trasparente, di quanto non lo paghi Obama, che gli ha affidato l’incarico di rilanciare la Chrysler , a danno di qualsiasi concorrente. La Fiat, per decisione della famiglia Agnelli, soprattutto Umberto, ha smesso di occuparsi seriamente di automobili, o comunque  senza farne un asse portante degli investimenti della famiglia, adeguandosi ad una scelta “postmoderna” di operare nella finanza piuttosto che nella produzione. Il “ritorno” della Fiat alla produzione di automobili, è stata una finta. La sostanza è che ora in Italia gli operai Fiat, devono produrre prevalentemente automobili Chrysler secondo normative contrattuali made in USA. Ecco un effetto vistoso degli effetti dell’occupazione americana. Del resto la cd “delocalizzazione”  nei Balcani a condizioni così vantaggiose, non sarebbe stata possibile senza una occupazione territoriale del tutto esplicita da parte di truppe Nato, o comunque di paesi che di quel sistema fanno parte. Ora nessuno mette in relazione i due fatti la cui connessione è del tutto evidente. Si preferisce credere che i vantaggi  per investimenti nei Balcani sia opera della “modernità”.  In verità è solo la crisi dell’Occidente che avanza, e purtroppo in modo assai doloroso anche e soprattutto per gli operai di ogni nazione,  i quali avrebbero tutto l’interesse a coalizzarsi per una normativa contrattuale omogenea in zona €. Sarebbe, in prospettiva la migliore risposta possibile all’ intrusione dei dollari di Marchionne.

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